“C’è troppa finanza nel mondo e da troppo tempo”. È questa una delle cause non solo della crisi che ha sconvolto l’economia mondiale dal 2008, ma anche delle difficoltà con cui queste stesse economie continuano a confrontarsi. Tanto che comincia a dimostrarsi vero il fatto che le medicine adottate per rimediare alla crisi non stanno facendo altro che porre le basi per la crisi successiva.

In primo piano sono due elementi: 1) la politica del denaro facile adottata dalle banche centrali, prima quella americana, poi quella europea, che hanno tenuto bassi i tassi di interesse e riversato sul mercato una grande quantità di capitali; 2) i comportamenti degli operatori che, con la complicità della mancanza di regole e delle sempre maggiore potenzialità degli strumenti elettronici, hanno moltiplicato gli strumenti finanziari perseguendo l’obiettivo di fare i soldi con i soldi.

Il tema è messo in luce con precisione da Giangiacomo Nardozzi, docente di economia monetaria al Politecnico di Milano, in un libro che ha un titolo che è tutto un programma: “Il mondo alla rovescia, come la finanza dirige l’economia” (Ed. Il Mulino, pagg. 178, euro 12). Un mondo che è profondamente cambiato negli ultimi vent’anni, dove la politica ha affidato alle banche centrali il compito di controllare l’economia, dove le banche (non tutte, per fortuna) hanno smesso di essere la cinghia di collegamento tra il risparmio delle famiglie e le esigenze delle imprese, dove la tecnologia ha messo a disposizione strumenti diabolici all’ingegneria finanziaria.

E quella che era un’economia di mercato, caratterizzata smithianamente dalle scelte delle persone, è diventata un puro e semplice “capitalismo” con le decisioni dettate dalle esigenze del capitale, da un denaro virtuale che cerca di moltiplicare se stesso al di fuori dei tradizionali e concreti metodi della creazione di valore. Il sistema finanziario è diventato così sempre più arrogante: facendo leva sulla necessità di difendere un valore pubblico, come il risparmio, ha generato colossi troppo grandi per fallire e anche troppo grandi per essere governati, e ha permesso che i più alti livelli venissero compensati con stipendi al di fuori di ogni logica e ogni realtà.

L’Italia è rimasta ai margini di questa tendenza mondiale, un tendenza che peraltro è costata miliardi di dollari (o di euro e di sterline) di fondi pubblici per i salvataggi delle banche: dopo Lehman Brothers, con gli effetti a catena provocati da quel fallimento, nessun Paese ha abbandonato a se stesso un istituto di credito in difficoltà. Sia per la scarsa internazionalizzazione delle banche, sia per l’attenta vigilanza di via Nazionale le banche italiane hanno complessivamente tenuto bene all’ondata lunga della crisi: solo due istituti, peraltro non di secondaria importanza come il Monte dei paschi di Siena e la Cassa di risparmio di Genova, non sono riusciti a superare gli stress test della Banca centrale europea e hanno dovuto varare piani di emergenza per migliorare la propria situazione patrimoniale.

Ma in Italia la politica è andata in direzione contraria alla valorizzazione dei sistemi territoriali, al sostegno delle banche locali, al credito fondato sulle esigenze delle imprese e delle persone. Con un decreto a gennaio si sono infatti obbligate le grandi banche popolari a trasformarsi in società per azioni aprendo la strada a quella logica della finanza sempre più grande, sempre più fine a se stessa, sempre più scollegata con l’economia reale. Le banche popolari sono state, e avrebbero potuto continuare ad essere, l’esempio di un modo giusto di fare finanza: ma il mondo alla rovescia ha conquistato anche la politica italiana.