“Tra gli effetti deleteri prodotti dalla crisi economica vi è sicuramente la riscoperta, particolarmente percepita dalla pubblica opinione, del positivo ruolo dello Stato nella sfera economica: è un aspetto inquietante a dimostrazione della crisi, prima di tutto culturale, che il liberalismo sconta nel Paese”. Sono le prime righe, molto significative, dell’introduzione di Vincenzo Olita, direttore di Società libera, al tredicesimo rapporto sulle liberalizzazioni (“Un’incompresa necessità”, Ed. Rubbettino, pagg. 192, euro 15), un rapporto dedicato quest’anno, oltre che all’analisi generale, a tre temi particolari: i trasporti, la scuola e la giustizia.



Ed è proprio il passo del gambero che l’idea stessa delle liberalizzazioni ha compiuto negli ultimi anni che sollecita le maggiori riflessioni. Per due ragioni apparentemente opposte. La prima è data dal fatto che la crisi degli ultimi sette anni è stata sommariamente attribuita al mercato, anzi addirittura a quello che è stato chiamato il fallimento del mercato, portando come riflesso una rivalutazione dello Stato come imprenditore, come banchiere, come gestore diretto dei servizi. Ed è passata in secondo piano una delle maggiori cause della crisi: l’incapacità degli Stati di dare ai mercati le regole necessarie per funzionare al meglio. 



La seconda ragione è il cattivo risultato che hanno avuto, in molti casi, le liberalizzazioni attuate, in particolare nell’ultimo decennio del secolo scorso. Il rapporto di Società libera si sofferma molto puntualmente, con un’analisi di Giorgio Ragazzi, sul caso delle autostrade, dove si è privatizzato molto, quasi tutto, ma lo si è fatto male, concedendo ai privati non solo grandi rendite di posizione, ma anche meccanismi di adeguamenti delle tariffe che favoriscono fortemente i concessionari. A un monopolio pubblico si è così sostituito un monopolio privato per di più garantito e protetto dallo Stato, un monopolio che genera rendite parassitarie e che crea dei sovraccosti sul trasporto stradale che penalizzano la già scarsa competitività delle imprese italiane.



Il problema di fondo è che anche le privatizzazioni sono state portate avanti con la mentalità statalista della protezione e della garanzia impedendo al mercato, e quindi soprattutto ai consumatori, di fare la propria parte. Una mentalità che produce effetti perversi laddove si creano norme il cui risultato è l’esatto contrario dell’obiettivo annunciato e promesso: è il caso degli appalti, dove la logica del massimo ribasso, oltre ad aprire la strada alla corruzione e alla criminalità, consente tali e tanti adeguamenti in corso d’opera che rendono, di fatto, le opere pubbliche italiane tra le più care d’Europa.

Vi sono casi poi in cui privatizzazioni e liberalizzazioni, che dovrebbero andare di pari passo per avere effetti concreti di crescita dell’economia, restano un perenne motivo di discussione ideologica e di dibattito politico: gattopardescamente cambiare tutto per non cambiare nulla. È il caso della Rai e del duopolio televisivo, fortunatamente scalfito negli ultimi anni da Sky e da La7, che continua tuttavia a pretendere un canone per un servizio pubblico ormai confinato unicamente nell’informazione regionale.

E se la realtà è grigia le prospettive appaiono nebbiose. Il Governo e la maggioranza che lo sostiene non sembrano ispirati alla necessità di valorizzare il mercato, la sussidiarietà e l’iniziativa personale. Basti pensare a due importanti provvedimenti degli ultimi mesi: l’obbligo imposto alle grandi banche popolari di trasformarsi in società per azioni, da una parte, e la riforma della scuola, dall’altra.

La soppressione a freddo delle grandi banche popolari ha pari solo con la furia  napoleonica che decretò la chiusura dei conventi. In palese violazione dell’art.41 della Costituzione che garantisce la libertà economica il decreto del Governo è stata la più evidente forma di dirigismo economico al servizio dei grandi interessi finanziari. E la riforma della scuola, pur con molti elementi positivi, è stata ancora fortemente caratterizzata da uno spirito accentratore e normalizzatore frutto di decenni di dominio sindacale che ha posto sempre al primo posto e docenti e non gli studenti.

In queste condizioni c’è solo da sperare che lo Stato invadente possa diventare almeno uno Stato un po’ più efficiente. Ma è una speranza che non appoggia su solide basi, data l’esperienza del passato e del presente.