Sono passati più di 55 anni dalla scomparsa di Adriano Olivetti. Era il febbraio del 1960 quando l’imprenditore alla guida dell’Olivetti moriva a 59 anni nel pieno della sua attività, sul treno che lo portava a Losanna dove aveva programmato una serie di incontri per rafforzare finanziariamente un’azienda che stava vivendo un periodo di grande crescita affrontando insieme le sfide per l’innovazione.

Al di là della vicenda industriale, su cui sono stati scritti innumerevoli libri, appare particolarmente significativo in questo particolare momento riprendere le fila della testimonianza civile di Adriano Olivetti, soprattutto nella sua visione di una società capace di interpretare insieme le esigenze della modernità e l’approfondimento dei valori del territorio, delle comunità, delle realtà sociali.

È un percorso che Aldo Bonomi, Marco Revelli e Alberto Magnaghi (un sociologo, uno storico, un urbanista) tracciano nel libro Il vento di Adriano (Ed. Derive approdi, pagg. 142, euro 12), un confronto aperto e per molti aspetti provocatorio di un’esperienza che è stata nel dopoguerra un segno quasi profetico della possibilità di superare i percorsi tradizionali delle fabbriche, della produzione, dell’innovazione.

Un’analisi che parte dai valori fondamentali e che appare molto significativa perché diviene l’indicazione di un percorso, più che l’affermazione di una soluzione; un percorso che aiuta a ritrovare il senso di una partecipazione rispettosa e creativa per riscoprire nell’unità della persona i cittadini, i lavoratori, i padri e le madri di famiglia. “È l’idea – ricorda Aldo Bonomi – della polis greca, della sovranità della politica sull’economia fusa con il concetto di persona. E qui sono centrali il pensiero di Maritain, il personalismo cristiano di Mounier e quindi il valore della fraternità ovvero dell’uomo radicato in un contesto di relazioni, non il singolo io sradicato”.

Non ci si può nascondere che quella in cui viviamo rischia di diventare sempre di più la società della dispersione e della frantumazione dei percorsi di vita. Una società che si affida alla tecnica che diventa un idolo da servire e non uno strumento per facilitare relazioni sincere. Una società in cui il dominio della finanza riesce a spezzare le potenzialità dei fattori di mercato. Una società in cui anche il territorio diviene un elemento da utilizzare e non la dimensione di un patto non scritto di solidarietà.

La parola d’ordine di Adriano Olivetti era “comunità”, una parola che è diventata anche il marchio di fabbrica di molte sue iniziative, una parola che ha bisogno di essere di nuovo declinata secondo la complessità di un momento come l’attuale, quanto mai ricco di contrasti e di difficoltà. Comunità è relazione costruttiva, accoglienza, rispetto. Comunità è partecipazione, è superamento della logica del conflitto, è rivedere le logiche dell’impresa, è ridare alla politica il ruolo costruttivo di facilitatore sociale.

Già, la politica. Il punto debole di un Paese come il nostro in cui troppo spesso la politica è stata piegata alle ambizioni di potere, agli interessi e alle ambizioni dei singoli, al “tirare a campare” perché poi comunque qualcun altro pagherà il conto. E invece bisognerebbe ritrovare la dimensione del progetto (non certo della programmazione), della capacità di motivare le forze creative di cui è ricco il nostro Paese, della riscoperta del fatto che il “valore” non è una dimensione economica.

C’è in fondo nel pensiero di Adriano Olivetti una grande fiducia nelle potenzialità della persona, di ogni persona. Una visione che intreccia i fondamentali del liberalismo con il cristianissimo amore per il prossimo, e che non affida ai muri soffocanti delle strutture (come nel comunismo) il compito di guidare il cammino della società.