L’Italia è un paese ricco. La ricchezza degli italiani, tra case e risparmi, è vicina ai 10mila miliardi di euro: più di quattro volte il debito pubblico che pur è tra i più grandi del mondo. L’Italia è un paese povero (o almeno di poveri). Ci sono quasi quattro milioni di persone che non possiedono nulla e non hanno nessun reddito o che comunque vivono sotto la soglia della povertà. L’Italia è un paese di forti diseguaglianze. Il 10% degli italiani possiede metà della ricchezza nazionale. E sono i giovani a pagare i prezzo più pesante: con una disoccupazione tra le più alte d’Europa.

La crisi economica degli ultimi anni, ma non solo il Italia, ha reso ancora più difficile la situazione per milioni di famiglie, soprattutto quelle numerose. Le difficoltà dell’occupazione, la stagnazione dei redditi, il calo dei consumi sono tutti elementi che indicano le difficoltà di fondo di un Paese che non riesce a stare al passo degli altri partner europei, non solo della Germania, ma anche della Spagna che cresce a ritmi ben maggiori dei nostri.

E anche nella realtà economica ci sono forti diseguaglianze. Un terzo delle imprese è innovativo, aperto al commercio internazionale, capace di cercare nuove strade per crescere. Ma un altro terzo stenta a sopravvivere di fronte al forte cambiamento dei mercati e delle strategie di produzione per la doppia rivoluzione della globalità e delle tecnologie.

Questa prospettiva è particolarmente importante perché una delle condizioni, necessaria anche se non sufficiente, per avviare un percorso di riduzione delle diseguaglianze passa proprio dalla crescita economica, dal fatto di produrre maggiore ricchezza sperando anche di poterla distribuire meglio.

Il complesso rapporto tra crescita e disuguaglianza è messo in luce con chiara sintesi da Giuseppe Arbia nel libro Diseguaglianza, redistribuzione e crescita (Ed. Vita e pensiero, pagg. 114, euro 10). Arbia, docente all’Università Cattolica, cerca di analizzare, senza utilizzare astruse formule matematiche, le dinamiche economiche e sociali che fanno sì che mentre la crescita economica favorisce l’allargamento delle diseguaglianze è proprio questo allargamento che costituisce un fattore tra i più importanti che frenano l’economia.

Un’ipotesi di soluzione, che peraltro Arbia propone, ma insieme promette di analizzare più profondamente, sta nel fatto che le diseguaglianze non sono tutte uguali. Ci sono diseguaglianze determinate dall’ineliminabile e positiva differenza tra le persone: sono le “cause naturali che non possono che avere un effetto benefico per lo sviluppo e la crescita economica, attraverso il meccanismo degli incentivi, dal momento che alcuni produrranno più di altri a causa delle loro capacità innate”. Al contrario, continua Arbia, “la presenza di diseguaglianze sociali non può che frenare la crescita attraverso un’infinità di meccanismi differenti”.

Per questo una corretta dinamica sociale esigerebbe che, garantendo l’eguaglianza dei punti di partenza, potessero venire protette e sviluppate le differenze naturali, ma nello stesso tempo attuando quella redistribuzione che, senza diventare punitiva, possa attuare la migliore utilizzazione delle opportunità del mercato.

Si tratta in pratica di rovesciare la logica di quello che è stato uno dei più clamorosi autogol della sinistra italiana, di quel partito che si chiamava “Rifondazione comunista”, che dieci anni pubblicò un manifesto in cui campeggiava un grande yacht con la scritta “Anche i ricchi piangano”. Come dire: il nostro programma non è quello di aiutare la crescita economica, di sviluppare le possibilità di reddito e di lavoro, ma è soprattutto quello di punire la ricchezza, considerata una colpa sociale. Una visione chiaramente ideologica e distorta della realtà.

Le ricette costruttive peraltro non sono facili. Nel suo libro Arbia accenna alla possibilità di rivedere le imposte di successione e di accentuare la progressività delle aliquote fiscali, soprattutto per i veri ricchi che hanno un reddito superiore ai 500mila euro l’anno. Riforme certamente possibili se si evita una logica di rivalsa. Perché la crescita sociale e quindi anche economica sono la base necessaria per attuare adeguate politiche contro la povertà e l’emarginazione.