Chi vincerà è difficile prevederlo. Come cambierà l’America dopo che Hillary Clinton o Donald Trump saranno entrati alla Casa Bianca è uno scenario ancor più temerario da disegnare. Ma per comprendere anche le realtà di fondo in cui si muovono le elezioni negli Stati Uniti è certamente utile approfondire il ruolo di quella che è stata e continua a essere una grande potenza con un’incidenza sicuramente rilevante, in maniera positiva o negativa come la si vuol giudicare, sull’intero scacchiere mondiale.
Molti fatti sono sembrati negli ultimi tempi portare acqua al mulino di quanti sostengono che siamo di fronte a un declino sia del ruolo dell’America nel mondo, sia della stessa realtà americana nella sua capacità di essere un modello di libertà civili e di benessere sociale. Continuano a essere una dimensione complessa le scelte di politica estera, soprattutto con i passi falsi e gli errori strategici nella gestione delle crisi mediorientali. E le difficoltà che incontrano i negoziati sulla nuova partnership transatlantica sembrano dimostrare una crescente diffidenza dell’Europa verso i reali interessi americani. Fino allo scambio di ingiunzioni di pagamento con la multa europea alla Apple per aver evaso le tasse in Irlanda e la multa americana alla Deutsche Bank per le sue pratiche commerciali illecite negli Usa.
La teoria del declino americano trova una argomenta e coerente analisi critica in Joseph S. Nye, professore alla John F. Kennedy School of Government di Harvad nel libro “Fine del secolo americano?” (ed. Il Mulino, pagg. 136, euro 13) . “Questo – scrive Angelo Panebianco nella prefazione – è un libro fuori dal coro. Unendo rigore e capacità divulgativa, sostiene una tesi controcorrente, che solo pochi tra gli studiosi e gli osservatori della politica internazionale contemporanea sono disposti a sottoscrivere. È un volume che fa a pezzi, usando solidi e assai persuasivi argomenti, la generale credenza, la vulgata che si è ormai affermata, sull’inesorabile declino americano, sull’eclisse ormai in atto della potenza americana”.
Nye affronta il tema non solo nel filone tradizionale, quello della potenza militare, economica e finanziaria, ma anche in un’analisi di quello che chiama il soft power, il potere leggero, teorizzato dallo stesso Nye come uno degli elementi fondanti della presenza internazionale attraverso la cultura, la capacità di persuasione, la credibilità delle proprie posizioni.
“Il soft power di un Paese – spiega Nye – si basa principalmente su tre risorse: la sua cultura (nella misura in cui esercita attrazione nei confronti di altri), i suoi principi (nella misura in cui riesce a farli rispettare in patria e all’estero), e le sue politiche estere (nella misura in cui vengono percepite legittime e dotate di autorità morale)”. E gli Stati Uniti, secondo Nye, non solo mantengono una assoluta leadership come potere economico e militare (il che non vuol dire che questi poteri vengano sempre usati bene), ma sono destinati a mantenere una posizione di complessivo vantaggio anche in senso relativo nel confronto degli altri paesi, in particolare della Cina che viene spesso descritta come indirizzata a a dominare il XXI secolo.
Pechino, soprattutto con la nuova dirigenza, sta sicuramente compiendo dei passi in avanti su molti fronti, soprattutto a livello economico e di presenza internazionale, ma continua a compiere passi falsi sul fronte dei diritti umani, della libertà interna, delle tentazioni di espansione territoriale. E inoltre non ha una potenza militare paragonabile a quella americana o russa e non l’avrà ancora per molto tempo. “Alla Cina – afferma Nye – occorrerà ancora molto tempo per competere alla pari nello scacchiere internazionale”.
L’analisi di Nye non è comunque un’esaltazione dell’America. In più punti si sottolineano i limiti, le indecisioni e i veri propri errori politici compiuti negli ultimi anni per concludere che “ora con un po’ meno supremazia e un mondo molto più complesso, gli Stati Uniti dovranno fare scelte strategiche intelligenti sia in patria che all’estero, se vorranno mantenere la loro posizione”. Più un auspicio che una previsione.