Ci sono molti elementi che portano a sottolineare come per la politica, come pure per l’economia, sia sempre più urgente il bisogno di superare i tradizionali paradigmi sia di interpretazione che di azione. Si ha quasi la sensazione, come nel saggio dell’economista americano Gary Gorton, che sul fronte economico la mano invisibile teorizzata da Adamo Smith più che guidare l’azione umana verso il bene comune si limiti a dare dei grandi schiaffoni da cui si fa sempre più fatica a riprendersi. E sul fronte politico la crisi della rappresentanza unita alla lotta populista per il consenso sembra frenare la possibilità di azione non solo efficiente, ma soprattutto rispettosa degli interessi reali delle persone e delle comunità.

Di fronte a queste realtà il crollo delle ideologie ha lo stesso effetto del fallimento delle teorie economiche basate sui modelli matematici e sulla schiavitù delle aspettative razionali: non si possono dare risposte giuste a domande sbagliate. Destra e sinistra, Stato e mercato, diventano categorie che appartengono più alla storia che alla possibilità di analisi e di soluzioni.

Ma come ammoniva John Maynard Keynes è difficile abbandonare le vecchie teorie per avanzare lungo le terre inesplorate senza la bussola o il sestante dei vecchi esploratori (o degli economisti defunti). Ma è questa la sfida che raccoglie Stefano Zamagni nel suo ultimo libro “Prudenza” (ed. Il Mulino, pagg. 126, euro 12), in cui si tentano strade nuove fin dal titolo. Prudenza, infatti, non è colta solo nell’accezione comune del guidatore d’auto, quindi la volontà di limitare al massimo i rischi, ma soprattutto nella dimensione di chi guarda alla società con una visione insieme lunga e larga. Lunga per andare oltre la frenesia del breve termine, dei guadagni immediati, della creazione di valore a tutti i costi. Larga per comprendere il più possibile una realtà che è sempre più frammentata, pluralista, portatrice di interessi che nell’immediato appaiono contrapposti.

“La presa in considerazione della prudenza – scrive Zamagni – ci fa comprendere che non si può continuare con la soffocante dicotomia che vede, su un fronte, la tesi neoliberista secondo cui i mercati funzionano quasi sempre bene, e dunque non vi sarebbe bisogno di invocare speciali interventi regolativi, e, sull’altro fronte, la tesi neostatalista secondo cui i mercati quasi sempre falliscono, e pertanto occorre affidarsi alla mano visibile dello Stato”. 

Superare questa dicotomia vuol dire recuperare la logica espressa da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: il mercato è tanto più efficiente quanto più alla logica dello scambio si affianca e si integra la logica del dono e della solidarietà. Non come elementi aggiuntivi, per dare una patina di etica alle scelte economiche, ma come strumenti che appartengono strettamente ai valori delle persone. È necessario – scrive Zamagni – “recuperare quel principio di fraternità che pure era stato inserito nella bandiera della Rivoluzione francese e che poi venne maldestramente rimosso”. 

Di fronte alle spinte della globalizzazione, di fronte a una rivoluzione tecnologica che abbatte come castelli di carte le vecchie catene produttive, di fronte all’incapacità della politica di fronteggiare le pressioni tecnocratiche dei mercati è quindi forse ora di ripensare un nuovo modello di società civile, dove la traccia non può che essere quella della sussidiarietà.

C’è in questo percorso il modello di economia civile dove i beni relazionali hanno un posto di primo piano in una catena del valore in cui hanno un posto tutte le dimensioni dell’umanità. Non per negare il possesso o la proprietà, ma per andare oltre in quella logica già espressa nell’Adamo Smith della “Teoria dei sentimenti morali”: la logica della simpatia, di una felicità che nasce dalla felicità dell’altro.