Non è solo una definizione di moda. Parlare di industria 4.0 vuol dire entrare in un mondo completamente nuovo, quello dell’intelligenza artificiale e dell’evoluzione dell’automazione applicata alle più diverse forme produttive. Per 4.0 si intendono soprattutto le logiche dell’informazione digitale con quattro punti di grande novità: le stampanti a tre dimensioni, l’internet delle cose, la crescita esponenziale dell’elaborazione dei dati, l’impiego di algoritmi sempre più complessi.

E ci si riferisce anche alla quarta rivoluzione industriale. La prima è quella avvenuta a fine Ottocento, con i telai meccanici nelle industrie tessili, la seconda è quella realizzata da Henry Ford con l’adozione della catena di montaggio, la terza è degli ultimi decenni del secolo scorso con l’avvio di un processo di forte automazione, la quarta è quella che stiamo vivendo e di cui stiamo parlando.

Lo scenario è quello della fabbrica intelligente in cui la persona resta centrale, ma non come operatore, bensì come programmatore, controllore, verificatore. Il rapporto tra “uomini e macchine nella fabbrica digitale” è proprio il sottotitolo del libro “Industria 4.0” di Annalisa Magone e Tatiana Mazali (Ed. Guerini e associati, pagg. 176, euro 18) in cui si raccontano le esperienze di imprese altamente innovative, alcune a due passi da casa nostra, dove l’integrazione delle diverse tecnologie ha cambiato in pochi anni il modo di progettare, di produrre, di distribuire.

Non si tratta solo di veder sostituire il lavoro umano con le macchine, magari con i robot: questo già avveniva a fine Ottocento ed è diventata una dimensione sempre più estesa e coinvolgente. Si tratta di mettere a frutto tutte le enormi potenzialità delle tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni per reinventare il modo di fare impresa. Con implicazioni notevoli a livello economico e non solo perché il costo orario di un robot è sensibilmente inferiore rispetto a quello di un operaio, ma soprattutto perché le nuove tecnologie richiedono una sempre maggiore specializzazione per i nuovi operai e peraltro hanno bisogno di un sempre minor numero di occupati a parità di produzione. Siamo di fronte al radicale superamento dei tradizionali modelli organizzativi basati sulla divisione del lavoro e insieme all’introduzione di nuove potenzialità in grado di garantire maggiore efficienza, qualità e produttività.

Rispetto all’automazione tradizionale, che peraltro in gran parte ha liberato i lavoratori dagli impieghi non solo ossessivamente ripetitivi, ma anche pericolosi o nocivi per la salute, la fabbrica 4.0 si pone come dimensione capace di cambiare non solo il modo di produrre, ma anche la stessa logica del prodotto. Nel libro si fa l’esempio della mobilità “che fino a pochi anni fa si presentava nettamente distinto tra produttori di beni ed erogatori di servizi, mentre oggi i confini sono divenuti liquidi e si vendono servizi offrendo prodotti come commodities”.

Siamo di fronte a un’evoluzione che non va acriticamente esaltata e nemmeno superficialmente demonizzata. Ma è comunque un’evoluzione che richiede da parte di imprenditori, sindacati e politica una nuova e diversa attenzione. Per evitare che il “punto zero” sia un ulteriore elemento che approfondisce le disuguaglianze, che crea una nuova casta di specialisti emarginando una sempre più vasta area di persone.

Se è vero che con i nuovi modelli organizzativi si produce maggiore ricchezza deve essere responsabilità sociale il riuscire a far diventare questa ricchezza una dimensione del bene comune. Senza aver paura di rimettere in gioco i tempi del lavoro, i paradigmi del salario, la logica della contrattazione. Ma ancora una volta la politica sembra pensare ad altro.