La tentazione è sempre molto forte: utilizzare un sano principio e un obiettivo eticamente condivisibile per obiettivi, di volta in volta, populisti, demagogici o frutto semplicemente di invidia sociale. Va in questa prospettiva almeno parte del dibattito che negli ultimi anni si è innestato sul tema delle disuguaglianze.

L’economista francese Thomas Piketty è balzato lo scorso anno agli onori della cronaca con un libro altrettanto ampio quanto provocatorio (“Il capitale nel XXI secolo”) che ha suscitato un grande interesse, approfonditi dibattiti e praticamente nessun cambiamento politico o sociale. Nel libro Piketty sosteneva, con ampia documentazione storica e statistica, la tesi secondo cui si è sempre più accelerata negli ultimi anni, in particolare dopo la crisi del 2009, la divaricazione tra le classi sociali con un allargamento della fascia dei poveri e una forte dinamica dei redditi e dei patrimoni dell’1% della popolazione più ricca.

Al di là delle cifre, che pure costituiscono un’importante base di giudizio, spicca il fatto che è ormai ampiamente condivisa la tesi secondo cui le disuguaglianze siano da considerare al tempo stesso causa ed effetto della stagnazione economica e spesso della recessione. Causa, perché si allarga la fascia di popolazione con redditi vicini al limite di sopravvivenza e quindi senza la possibilità di spingere i consumi e quindi la produzione e la creazione di ricchezza. Effetto, perché lo spostamento della creazione di valore dalla produzione di beni e servizi all’intermediazione finanziaria ha provocato e continua a provocare una sempre maggiore prevalenza nel Prodotto interno lordo delle rendite da capitale rispetto ai redditi di lavoro.

Le disuguaglianze sono quindi un fattore di freno sociale oltre che una dimensione che richiede scelte etiche e politiche in grado di invertire una tendenza quanto meno ingiustificabile. Come fare? È questa la domanda centrale di una conversazione tra lo stesso Piketty e la senatrice democratica americana Elisabeth Warren, in prima fila negli ultimi anni nella battaglia contro il dominio della grande finanza, una conversazione raccolta ora in un piccolo, ma molto denso libro (“La società dei diseguali”, ed. Castelvecchi, pagg. 46, € 5).

Dando per scontato l’assunto secondo cui la stessa quantità di denaro ha molto meno effetto sulla crescita se distribuita tra poche persone, come può essere possibile una distribuzione più equa della ricchezza prodotta? La tentazione più forte, sposata a più riprese da Piketty, è quella di aumentare il prelievo fiscale sui ricchi, di istituire nuove tasse patrimoniali, di correggere (dove esistono come negli Stati Uniti) le leggi che in qualche modo premiano i grandi patrimoni. L’immagine è quella di Robin Hood che toglie ai ricchi per dare ai poveri, ma è un’immagine che rischia tuttavia di avere effetti negativi sulla stessa dinamica economica. Una maggiore equità dovrebbe essere tuttavia l’obiettivo di qualunque sistema fiscale anche per dare a tutti una prospettiva di partecipazione e di coesione sociale particolarmente importante.

Non bisogna peraltro dimenticare che, almeno in Italia, il sistema fiscale è già ora ampiamente progressivo e il sistema previdenziale ampiamente assistenziale. Certo, tutto si può correggere e migliorare, ma il nodo principale da sciogliere non è tanto la diffusione degli interventi contro la povertà, quanto l’impegno per impedire gli abusi che dirottano gli interventi al di fuori delle vere necessità.

Il problema di fondo, come ammettono sia Piketty, sia Warren, non è peraltro solo quello di applicare una giustizia dall’alto, ma di costruire una società basata sulle uguali opportunità, sulla capacità di premiare il merito, sull’istruzione diffusa a ogni livello, sulla dimensione culturale come premessa di una maggiore uguaglianza economica. “La diffusione del sapere – afferma Piketty – può essere un potente strumento per ridurre le disuguaglianze sia interne a un Paese che tra Paesi e zone del mondo: ammesso che tutti abbiano accesso alle competenze, alle professioni, all’istruzione e alle istituzioni del mercato del lavoro, come ad esempio il salario minimo”.

Una giusta lotta alle disuguaglianze dovrebbe quindi partire non da una volontà giustizialista, che porterebbe a lungo termine ad abbassare la ricchezza complessiva, ma dalla capacità di offrire a tutti la possibilità di accedere a migliori livelli di vita. La politica fiscale resta certamente importante, ma ancora più importante è rendere più efficiente la spesa pubblica non in termini assistenziali, ma per creare le condizioni per far crescere al meglio tutto il sistema economico e sociale. Un sistema che, non bisogna dimenticarlo, è per sua natura dinamico: la ricchezza non è una grandezza certa e definita che si può dividere secondo volontà politica. La ricchezza si crea se ci sono le condizioni perché gli uomini possano crearla.