In Italia ci sono 65mila aziende con un fatturato tra i 5 e i 250 milioni di euro. Nella quasi totalità si tratta di aziende familiari e un buon numero di queste è stato fondato nel secondo dopoguerra, sulla scia del miracolo economico, e sono riuscite ad arrivare alla seconda generazione. Vi sono anche aziende nate nella prima metà del secolo scorso: pochi grandi gruppi e una costellazione imprese di piccola e media dimensione che costituiscono la spina dorsale dell’economia italiana.
Alla base di questa realtà, così diversa da quella tedesca dove dominano le grandi dimensioni, vi sono tutta una serie di fattori, da quelli economici a quelli culturali, da quelli storici a quelli che potremmo chiamare istituzionali, come il sistema fiscale e amministrativo. Ma c’è anche quella dimensione familiare che fa considerare l’impresa come un patrimonio che va difeso, che va protetto dalle tentazioni della finanza, che va tramandato e quindi di volta in volta riconquistato.
E c’è un valore che va oltre la stretta realtà della struttura aziendale: è il senso di una missione che consiste nel dare e garantire il lavoro, di fare di ogni dipendente un collaboratore, nell’avere un rapporto costruttivo con la realtà sociale. Con la capacità di coniugare la tradizione e l’innovazione, fondando sul gusto del bello e del buono la possibilità di allargare mercati e fatturato. Valorizzando le peculiarità del territorio. E con una politica di immagine che si sposa con tutto quanto possa consolidare il senso di un’azienda capace di vivere il proprio tempo.
Di esempi di aziende di questo tipo ce ne sono fortunatamente moltissimi; in ogni angolo d’Italia c’è un imprenditore che ha saputo raccogliere l’azienda fondata dal padre o dal nonno; in ogni settore si possono scoprire eccellenze, magari di nicchia, capaci di rafforzare il made in Italy nel mondo. Sono aziende di cui spesso non si parla, sono storie imprenditoriali che rischiano di essere confinate nella memoria familiare o al massimo di diventare importanti solo per i loro prodotti e non tanto per il lavoro e la passione che ne costituisce le fondamenta.
Va quindi dato ad Alberto Balocco di aver ceduto alle sollecitazioni di Adriano Moraglio, giornalista con all’attivo proprio il racconto di molte storie imprenditoriali di piccole e medie imprese. È nato così “Volevo fare il pasticcere” (Ed. Rizzoli, pagg. 276, euro 20), un libro in cui Balocco racconta la storia della propria famiglia “che da quattro generazioni si adopera per rendere più dolce la vita di tutti i giorni”.
“Per molti versi – scrive Balocco nell’introduzione – la nostra è una vicenda molto ‘normale’, eppure ha qualcosa di appassionante che non possiamo tenere solo per noi. È una storia nella storia di Fossano e della nostra Italia. Non è solo nostra, ma è anche delle tante persone che come noi e con noi hanno amato e amano quello che fanno, dentro una “fabbrica” del tutto particolare dove si sfornano panettoni, pandori, biscotti e tante altre dolcezze”. È una storia in cui i tratti umani, le emozioni e le preoccupazioni, si sovrappongono alle logiche manageriali, in cui gli alti e bassi degli affari si innestano sulla volontà di non dare risposte facili ai problemi difficili. Nella Balocco c’è tutto lo spirito italiano, come dimostrano le sponsorizzazioni della Juventus prima e del Giro d’Italia poi, dal calcio al ciclismo come espressione delle dimensioni più popolari del Paese.
“Dentro le preoccupazioni – scrive Balocco nella conclusione -, dentro l’impegno sempre vivo, a spronarti a continuare è la coscienza che altri, prima di te, hanno rischiato tutto. Hanno avuto il coraggio, un coraggio autentico, puro, sincero, di avere paura.” In fondo le sfide, quelle umane così come quelle imprenditoriali, sono fatte per essere vinte; e sono sfide che continuano come una corsa a tappe dove ogni traguardo si trasforma in un punto di partenza, e quando si arriva alla fine si pensa già alla corsa dell’anno dopo.