La chiamano “Industria 4.0” ed è un cambiamento senza precedenti. Non è solo la quarta rivoluzione industriale, ma anche l’avvento di modelli del tutto nuovi di produrre, di consumare, di gestire le imprese, di distribuire. Il terzo millennio ha portato con sé non solo la crisi finanziaria più grave dal 1929, ma anche l’avvento a tutto campo delle nuove tecnologie legate a Internet, alla capacità di connessione, allo sviluppo di quella che viene chiamata, con condivisibile inquietudine, intelligenza artificiale.
E così la competizione globale è diventata insieme più aperta e più difficile. I tradizionali punti fermi del mercato del lavoro rischiano di essere travolti dalle esigenze di flessibilità delle imprese per i cambiamenti sempre più rapidi, e sempre più necessari, per affrontare il mercato. Non si tratta solo di sostenere gli oneri delle difficoltà, si tratta di sfruttare le occasioni e le opportunità anche nella convinzione che la realtà italiana è in grado, anche per la preparazione e la competenza del capitale umano, di offrire risposte concrete ed efficienti. Lo dimostra, per esempio, il caso della Fiat. Un’azienda di dimensioni globali, sull’orlo del fallimento all’inizio degli anni 2000 e riportata ai vertici delle case automobilistiche mondiali tornando soprattutto a creare posti di lavoro in Italia.
Proprio il caso Fiat è uno dei punti forti del racconto che Raffaele Bonanni con Giuseppe Sabella compie nel libro “Digitale e potere collettivo” (ed. Cantagalli, pagg. 144, euro 15), un libro che costituisce una testimonianza e insieme un atto di fiducia verso la capacità di guidare le trasformazioni e di cogliere quanto di positivo vi si possa trovare. Bonanni, già Segretario generale della Cisl, racconta i punti forti e insieme problematici della sua attività e proprio il caso Fiat è portato ad esempio di come la visione costruttiva della Cisl abbia portato a casa molti più risultati della nostalgia aggressiva e conflittuale della Fiom-Cgil. Una visione costruttiva che fa i conti con la realtà e che trova le sue radici in quella Dottrina sociale della Chiesa che può costituire un metro di giudizio significativo per l’affermazione dei valori di ogni persona.
Ecco quindi lo spirito di partecipazione, la volontà di considerare la fabbrica come un valore comune, la necessità di governare e non contrastare l’evoluzione tecnologica: i robot in fabbrica non sono un’attività antisindacale. Con l’obiettivo di elevare la condizione di tutti i lavoratori, perché – scrive Bonanni – “credo che questo sia il reale obiettivo che un sindacato oggi debba darsi tenendo conto che la casa comune, per i lavoratori e per chi li rappresenta, non può che essere l’impresa. È questo il luogo dove l’uomo può vivere la sua missione, che è quella di coltivare e custodire, come dice il libro della Genesi”.
Nell’impresa le competenze dei singoli si moltiplicano nella gestione collettiva. E dal lavoro nasce un obiettivo molto alto. “Nel lavoro – scrive ancora Bonanni – partecipiamo, infatti, alla tessitura della civiltà: ecco perché non esiste libertà senza responsabilità. E nel lavoro, il luogo in cui libertà e responsabilità si incontrano è proprio l’impresa. Per questo, se pensiamo a un grande imprenditore come Adriano Olivetti, l’impresa è la casa e gli uomini devono sentirsi a casa quando lavorano. Dipende dagli imprenditori, ma dipende anche molto dai lavoratori, dalla loro capacità di volere bene e di partecipare alle gioie e ai dolori dell’impresa”.
C’è in questa prospettiva l’ideale di un sindacato aperto, capace di riconoscere e far riconoscere la dignità di ogni persona. Un sindacato molto da costruire, senza rinnegare il passato, ma anche riconoscendo errori e massimalismi che hanno spesso frenato la dinamica economica. Il mito della classe operaia si è arenato nelle sabbie del Novecento. E non è un caso se ora avanzano demagogia e populismo. Può e deve restare il punto fermo del valore della persona, di ogni persona. Il valore della responsabilità e del costruire sui rapporti di libertà.