L’anno che abbiamo lasciato alle spalle non è stato certo un anno tranquillo. Basti pensare al referendum inglese con la decisione popolare di abbandonare l’Unione europea e all’ascesa alla presidenza americana del “fenomeno” Donald Trump per avere l’immagine di una realtà globale in profonda evoluzione. E insieme di complessiva incertezza su quello che potrà avvenire nei prossimi mesi. Lo scorrere della storia, insieme alle profonde modifiche che stanno avvenendo nella società con gli effetti dell’innovazione tecnologica, ha infatti cambiato non solo le dinamiche dell’economia, ma il nostro modo di vivere, di lavorare, soprattutto di guardare al futuro. Con la politica che sembra disarmata alle prese con quella che è ormai comunemente descritta come la crisi della democrazia.

Nel tradizionale forum di Davos a metà gennaio si sono avute le immagini più trasparenti di questa realtà. Si è visto il presidente cinese, Xi Jinping, massimo rappresentante di un Paese che si proclama ancora “comunista”, esaltare il libero commercio e lanciare parole di fuoco contro il protezionismo. Si è vista la premier inglese Theresa May sostenere,  dopo la Brexit, il mito dell’Impero che dominava sui cinque continenti. Mentre in tutti i dibattiti e gli incontri c’è stato un protagonista virtuale, quel neo presidente americano, Donald Trump, le cui possibili mosse future appaiono ancora altrettanto incerte quanto preoccupanti: con il suo primo discorso da presidente che è apparso come un ulteriore capitolo della sua campagna elettorale. Il tutto per dimostrare in fondo che non solo è sempre più difficile prevedere il futuro, ma anche che è forse altrettanto complicato interpretare il presente.

Un filo conduttore per cercare una strada nel labirinto della realtà mondiale lo si può comunque trovare nel XXI rapporto sull’economia globale e l’Italia, realizzato ogni anno dal Centro Einaudi a cura di Mario Deaglio (“Globalizzazione addio”, ed. Guerini e associati, pagg. 242, euro 21,50). Un rapporto che si apre con una disarmante ammissione: gli economisti non riescono più a svolgere uno dei loro compiti essenziali, quello di fare previsioni e soprattutto di indovinarle. Negli ultimi anni un osservatorio autorevole come quello del Fondo monetario internazionale non ha fatto altro che rivedere periodicamente al ribasso le proprie previsioni. 

I temi presi in esame sono molti: dalla sfida americana a quella cinese, dal ruolo dell’Africa alla nuova geografia del petrolio, dalle guerre aperte ai conflitti interni in molti paesi. In primo piano il tema delle diseguaglianze. Negli ultimi anni è continuata a crescere la ricchezza di una piccola fascia di popolazione, si è ridotto il ceto medio e si è allargata la fascia dei meno abbienti e della vera e propria povertà. Anche se a livello globale il numero dei poveri è fortemente diminuito, la sempre più ampia disuguaglianza è insieme causa ed effetto di una crisi economica che rischia di diventare quella che è stata chiamata “stagnazione secolare”.

Strettamente collegati al tema sociale ci sono i riflessi di un’innovazione che sta portando forti ricadute sulle prospettive del mercato del lavoro. A fronte delle nuove professionalità, connesse ai nuovi sistemi collegati all’informatica e alle telecomunicazioni, vi è una fascia ampia di impieghi destinati se non a scomparire, sicuramente a essere fortemente ridimensionati. Quello che è certo è che diventeranno sempre più importanti gli investimenti pubblici e privati in formazione  per offrire una prospettiva di lavoro alle persone che rischiano di essere emarginate.

Un altro elemento sullo sfondo è quello demografico. Soprattutto in Europa l’invecchiamento della popolazione costituisce un problema non solo per il finanziamento della sanità e della previdenza, ma anche per la riduzione delle classi di età più giovani, quelle più propense all’innovazione e alla creazione di nuove imprese. Una società di anziani è inevitabilmente una società meno dinamica.

E nel delineare le prospettive dei singoli stati non si può dimenticare un fattore che costituisce un grande freno per la maggior parte dei paesi, la montagna di debito pubblico. Tutte le grandi nazioni hanno sulle spalle una montagna di debiti che rischia di schiacciare la possibilità di nuovi investimenti e quindi di crescita. Non solo il Giappone, che ha superato con il suo debito il 200% del Prodotto interno lordo, ma anche gli Stati Uniti, la Cina e i maggiori paesi europei devono fare i conti con le limitate potenzialità della spesa pubblica.

A questo punto sarebbe necessaria un risposta degli economisti, ma, come sottolinea Deaglio nell’introduzione “come in tutte le altre ‘scienze’ umane, anche le discipline economiche non riescono veramente a entrare nella complessità del reale; quando si passa dalla teoria alla pratica occorre fare i conti con molte dimensioni che travalicano la razionalità della costruzione scientifica, come la storia, la società, i valori, i vincoli ambientali”. 

Sempre più importanti sono così le scelte della politica. Ma anche la politica ha i suoi problemi: con una crescita dei movimenti nazionalisti e populisti che confondono le illusioni con le soluzioni.