L’obiettivo dell’Occidente è “indebolire, dividere e distruggere la Russia” ma “l’integrità territoriale della nostra patria sarà assicurata con ogni mezzo”. Putin va in tv di prima mattina è pronuncia il discorso che segna un ulteriore aggravarsi del conflitto. Il presidente russo dichiara una mobilitazione parziale, richiamando 300mila militari riservisti. Ieri si sono registrate proteste e arresti in diverse località della Russia.



I referendum nelle repubbliche del Donbass e nelle città di Kherson e Zaporizhzhia sono la risposta politica e militare del Cremlino all’offensiva ucraina: quando gli abitanti chiederanno con il loro voto l’annessione alla Russia, e dopo che questa sarà ratificata dalla Duma, Mosca sarà autorizzata a difendere, appunto “con ogni mezzo”, l’integrità territoriale. Una difesa che contempla anche l’uso di bombe nucleari tattiche, come prevede la dottrina militare russa.



“Inizia la guerra totale”, dice al Sussidiario Giulio Sapelli, economista, già ordinario alla Statale di Milano. Nel suo ultimo saggio, Ucraina anno zero. Una guerra tra mondi (Guerini, 2022) Sapelli esplora le faglie geopolitiche di un mondo in frantumi, segnato dalla crisi accelerata dell’unipolarismo americano. Ma il prezzo di queste trasformazioni, come stiamo vedendo in questi giorni, rischia di essere sempre più alto.

I referendum nel Donbass sono l’ultima risposta del Cremlino alla controffensiva di Kiev. Che cosa succederà?

L’esito sarà che i territori vogliono essere annessi alla Russia. È una strategia collaudata, come abbiamo visto nella repubblica georgiana dell’Ossezia del Sud (dove il referendum è stato sospeso da un decreto del 30 maggio 2022 del presidente de facto Alan Gagloev, ndr). Siamo davanti a un aggravarsi della situazione.



Infatti dopo l’annessione la Russia difenderebbe il proprio territorio. Per questo Mosca ha ordinato la mobilitazione parziale?

Certamente. Vuol dire che inizia la guerra totale. Il papa ha ragione nel dire che c’è un pericolo tangibile di guerra nucleare.

Come si può fermare il rischio di una escalation?

Ci vorrebbe un sussulto di realismo, che però non si vede. L’unica via per mettere fine alla guerra sarebbe che Kiev rinunciasse alla Crimea e al Donbass, ma non ne vedo i presupposti. Siamo davanti a due ideologie “risorgimentali” contrapposte.

Perché risorgimentali?

Gli ucraini si considerano giustamente ucraini. I russi invece li considerano russi. Mosca non accetta che l’Ucraina sia separata dal novi mir, da mondo russo.

C’è anche un errore di Kiev?

Sì, nell’escludere l’ipotesi di una Ucraina neutrale tra Occidente e Russia. Ma la situazione si complica, perché non solo gli Usa intendono mortificare la Russia, ma anche la Cina, unico possibile soggetto di mediazione, ora sembra volerlo.

Gli Stati Uniti?

Non vogliono che la guerra finisca. Ne hanno bisogno per continuare ad avere un’influenza forte in Europa e mettere in crisi la Germania. È tristissimo dirlo, ma la loro strategia segna una sconfitta tremenda dei valori cristiani e occidentali. Tutti hanno fallito: gli Usa, la Russia, che ha rivelato il suo lato peggiore, quello della potenza imperialistica, e l’Europa.

Perché l’Europa?

Perché non è riuscita ad opporsi al dominio americano. Ma anche l’Italia ha fatto un errore terribile: ha calpestato il lascito di Moro e Andreotti. Draghi ha volutamente ignorato il ruolo storico di mediazione svolto dal nostro Paese.

Ci spieghi meglio.

Moro e Andreotti non avrebbero mai fatto i segretari del partito delle sanzioni. Anzi: sono morti per non averlo fatto.

In Ucraina anno zero lei scrive che Putin e i gruppi dirigenti dominanti in Russia sono segnati da una “angoscia” esistenziale e politica che è aumentata in modo pari al loro inasprimento revanchista. Perché?

Si sentono accerchiati, soprattutto non si sentono più considerati una grande potenza. Il culmine fu quando Obama nel 2014 definì la Russia come “potenza regionale”. Da tempo intorno a Putin si è fatto strada il timore che la Russia possa finire.

Se si vuol capire questa crisi, secondo lei non ci si può fermare neppure ai fatti di Maidan 2014. Qual è lo snodo fondamentale?

La paretesi di Eltsin. Quando Gennadij Janaev e la vecchia nomenclatura sovietica cercarono di riportare indietro l’orologio dell’Urss e l’Occidente non sostenne Gorbaciov, il piano fallì e Boris Eltsin prese il potere. Ma Eltsin spianò la strada a Jeffrey Sachs e agli uomini che Washington aveva mandato a Mosca per privatizzare l’ex Unione Sovietica. L’alta finanza e la grande industria nordamericana e tedesca attuarono una vasta opera di depredazione dell’economia e delle risorse. Una parte della nomenclatura, compreso Putin, allora delfino di Eltsin, si oppose e mise fine all’esperimento.

Dove avrebbe portato quel processo?

Avrebbe smembrato la Russia. Che poi era quello che gli Usa volevano.

C’è sempre un’idea sottostante alle relazioni internazionali. Quando si è passati dalla realpolitik al primato dell’“ordinamento morale” propugnato dagli Usa?

Nel 1928, con il trattato Briand-Kellogg. Inaugura il progetto degli americani di sostituire alla diplomazia internazionale un ordinamento fondato sui diritti umani, per giustificare la loro ambizione di estendere a tutto il mondo la dottrina Monroe, applicata fino ad allora alla sola America Latina.

Per spiegare l’attuale ordinamento internazionale lei usa spesso l’immagine dei frattali: un disordine fatto di elementi ricorsivi ma instabili, frananti. Quando il mondo è diventato frattalico?

Con la firma del Trattato di Versailles, che gli Usa non ratificarono. In questo modo sconvolsero l’Occidente, perché crearono un ordinamento fondato sul principio nazionale ma senza implicarsi con esso e con le sue conseguenze. Lì comincia la distruzione del vecchio sistema delle relazioni internazionali e prende il loro posto un nuovo sistema, fondato sul conflitto di potenza.

Può farci un esempio?

Il patto Molotov-Ribbentrop. Stalin non esitò a firmarlo, pronto ad abbandonarlo una volta che la Germania fosse avanzata oltre misura. Un’assoluta spregiudicatezza non più fondata sulla fiducia, vero architrave delle relazioni internazionali, ma sulla potenza.

Lei afferma che la guerra tra Russia e Ucraina mette allo scoperto la debolezza dell’architettura funzionalistica dell’Unione Europea. Perché?

Jean Monnet e Alexandre Koyré recepiscono la lezione di Robert Triffin e del suo tentativo di costruire un sistema a moneta unica con Paesi a livelli di produttività diversi. Koyré dovrebbe essere noto non tanto per avere interpretato Hegel, quanto per avere ipotizzato che si potesse costruire un mondo fondato su equilibri di potenza provvisori basati su soluzioni tecniche segmentate – i futuri trattati europei – invece che su costituzioni popolari e legali. Ma nel mondo nessun “impero” è mai stato edificato su un sistema di trattati.

Perché dice questo?

Perché è proprio ciò che l’Europa cerca di fare nel dopoguerra su pressione statunitense. Gli americani capiscono che è il prezzo meno doloroso per fermare l’avanzata di Stalin nel vecchio continente. È Stalin, infatti, il vero vincitore nel 1945, perché a Berlino è arrivato lui per primo, non altri.

Può un sistema istituzionale come quello europeo, fondato sull’euro e sullo stop al debito, sopravvivere a questa guerra?

No, non può. La vicenda energetica, la quale altro non è che una destrutturazione delle relazioni di potenza, dimostra che l’Europa è destinata a soccombere. A Washington lo hanno capito benissimo, e infatti con la guerra in Ucraina ottengono due obiettivi: la distruzione del capitalismo tedesco e la rottura tra economia tedesca e imperialismo cinese.

Non va in rovina solo l’industria tedesca.

No, ovviamente le andrebbe dietro anche quella del Nord Italia.

Qual è l’obiettivo degli Usa?

Destrutturare l’Europa perché la sfida si gioca altrove, contro la Cina, e le risorse vanno investite là, in una Nato del Pacifico.

Vuol dire un altro disastro su altre macerie.

È l’avvento della prossima guerra nucleare. Perché come hanno detto Primakov e Karaganov, quando la Russia si troverà alle strette lancerà le bombe. Non ci sono dubbi. I primi target sarebbero Germania e Italia, il Paese che ha sfidato Mosca dopo una lunga consuetudine di fiducia.

Cosa si può ancora fare?

Ogni sforzo possibile per arrivare a un cessate il fuoco.

Lei scrive che una delle possibili vie di uscita dal conflitto è trasformare la competizione militare in competizione economica. A quali condizioni questo può ancora avvenire?

Occorre che i Paesi latini, Spagna, Francia, Portogallo, insieme alla Germania, si mettano d’accordo per controbilanciare gli Usa, che vogliono la guerra.

L’Italia non fa parte del gruppo?

È tagliata fuori perché condizionata da esponenti troppo subalterni agli americani.

Di chi si tratta?

Il Paese attraversa la fase che chiamo dei personalismi tecnocratici.

E la Russia?

È preda di un misticismo etnico grande-russo pericolosissimo. L’unica nostra speranza è che si rafforzi la dissidenza russa e che ci sia un colpo di Stato a Mosca. Altrimenti resta solo la guerra nucleare.

(Federico Ferraù)

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