Si ricorda dei suoi fasti imperiali. E proprio per questo sta cercando di tessere una tela di relazioni internazionali da grande potenza. La Turchia è presente da tempo in Africa, continente che è stato oggetto di veri e propri piani di intervento e di sviluppo da parte di Erdogan, e vuole espandere ancora di più la sua influenza sfruttando il declino di quella occidentale, in particolare francese. Lo fa attraverso strumenti molto concreti come l’agenzia Tika, che si occupa di progetti di cooperazione nel continente nero, e muovendosi a diversi livelli: quello culturale, sfruttando il riferimento islamico in comune con molti Paesi (ha costruito anche diverse moschee), ma anche commerciale, per godere di buoni rapporti con nazioni che hanno a disposizione molte risorse naturali, e militare, offrendo sostegno da questo punto di vista e accaparrandosi anche basi per una presenza militare propria.
Una strategia di lungo respiro, spiega Marco Di Liddo, direttore del Cesi, Centro studi internazionali, che i turchi attuano anche grazie al supporto finanziario di alcuni alleati, come Qatar ed Emirati. E che continuerà fino a che l’Occidente lascerà ad Ankara lo spazio per intervenire.
Da dove nasce l’attivismo turco in Africa?
La Turchia erdoganista ha una percezione di sé ispirata da quello che era l’impero ottomano, per questo quando si parla della politica estera di Erdogan si parla di neo-ottomanesimo: il Paese percepisce se stesso come attore primario della scena internazionale. Non dappertutto, ma in segmenti alla portata di Ankara: il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’Africa.
La presenza in Africa della Turchia secondo il ministro degli Esteri Hakan Fidan è destinata ad estendersi. Dove?
I due segmenti prioritari dell’azione turca sono quello dell’Africa settentrionale, nello specifico il Mediterraneo, con un Paese che spicca su tutti gli altri: la Libia. Lì l’azione turca è stata speculativa: dopo la caduta di Gheddafi Ankara ha capito che si presentavano grandi opportunità derivanti soprattutto dalle difficoltà dell’azione europea, compresa quella italiana, ed è riuscita a infiltrarsi. Gli obiettivi riguardano la possibilità di stabilire una presenza fisica a livello militare, di sfruttare le risorse del Paese (gas e petrolio) e di intrattenere, in prospettiva, rapporti con un Paese che non ha solo grandi risorse naturali, ma può avere grandi capacità di spesa. Un domani potrà diventare un cliente delle aziende turche a tutti i livelli.
L’attenzione, però, non è incentrata solo su questa area. In quali altre hanno già sviluppato i loro interessi?
Un secondo settore di interesse è quello dell’Africa orientale, del Corno d’Africa e qui i Paesi che rientrano piani di Ankara sono molteplici. Abbiamo una presenza turca non trascurabile in Somalia, culturale e umanitaria ma anche economica e militare, una presenza in Sudan, in cui sostengono le forze del generale Al Burhan, e poi c’è il dialogo con l’Etiopia, che però rimane un po’ in seconda fila. Le logiche non sono solo di penetrazione commerciale ma legate alle risorse geografiche. La Somalia è il Paese tramite il quale si può avere accesso a una lunghissima fascia costiera, con porti e infrastrutture per attaccare i mercati dell’entroterra africano e una base per il controllo delle rette commerciali verso l’Asia, per l’ingresso nel Mar Rosso. Un tema quest’ultimo che vale anche per il Sudan, che ha grandi disponibilità di oro ma anche di petrolio. Il sostegno di questi Paesi si traduce nel supporto all’agenda turca nelle istituzioni internazionali.
Un’attività che viene svolta grazie alla presenza abbastanza capillare della Tika, un’agenzia che i turchi hanno creato proprio per supportare la loro presenza in Africa. Come agisce?
La diplomazia culturale turca in materia di sviluppo è uno strumento di soft power fondamentale: cooptano le società e le strutture di questi Paesi, rendendole un po’ più impermeabili a eventuali cambi al vertice politico.
La Turchia è attiva anche nella fascia del Sahel e in Paesi dell’area come Mali e Burkina Faso, dove, secondo le dichiarazioni, le autorità di Ankara vogliono aumentare l’interscambio commerciale. È lì che svilupperanno la loro presenza?
In prospettiva sì. Partono leggermente indietro rispetto ad altri segmenti. Vogliono replicare lo schema libico, approfittare del ritiro dell’Occidente per avere più spazio di manovra. D’altra parte anche le giunte militari nel Sahel, non riconosciute dai Paesi occidentali, cercano un interlocutore per evitare l’isolamento internazionale.
Macron si è risentito spesso per l’attivismo turco in Africa. I turchi si pongono come alternativa a quello che chiamano l’imperialismo occidentale?
I turchi sul piano della propaganda politica sono molto abili: sì, usano questa contrapposizione, dimenticandosi che sono stati un impero. La differenza è che l’impero turco è finito prima di quelli coloniali europei, alla fine della Prima guerra mondiale, mentre gli imperi coloniali occidentali sono finiti dopo il secondo conflitto mondiale. Il ricordo della dominazione occidentale è più forte e i turchi si sono posti come Paesi alla pari. In questo hanno utilizzato la tipologia di approccio dei cinesi. Al momento sta funzionando. In più non dimentichiamo il fattore religioso che in alcuni Paesi, a maggioranza musulmana, gioca un ruolo importante. Mentre negli altri Paesi i turchi ricordano al mondo che formalmente sono un Paese laico.
Sembra che il Marocco dopo il terremoto non accetti gli aiuti francesi. In Niger i golpisti parlano di un possibile attacco da parte delle forze di Parigi. Il sentimento antifrancese in Africa è così forte?
Assolutamente sì. Il vero problema è la manipolazione di questo sentimento in senso populista. Alcune classi politiche africane sono consapevoli che c’è questo sentimento antifrancese e lo cavalcano, ci speculano, per accaparrarsi il favore del popolo e far dimenticare altre problematiche. Una dinamica che conosciamo bene anche in Europa.
Insomma anche i turchi, come i russi e i cinesi, non vanno in Africa a fare volontariato, ma perseguono i loro interessi.
Esattamente. Le relazioni internazionali si basano sull’ottenimento di un interesse che nelle migliori occasioni è equo, bilanciato e vicendevole, ma che in molti casi vede la prevalenza di un attore sull’altro.
La Turchia sarà ancora più intraprendente in Africa? La sua zona di influenza si estenderà?
Continuerà con l’opera di penetrazione strategica laddove altri Paesi, in particolare quelli occidentali, glielo permetteranno. E non andranno da soli: a livello economico non hanno possibilità infinite. Ci andranno sfruttando le loro amicizie, i loro rapporti privilegiati con alcuni attori del Golfo, in primis il Qatar e magari anche altri come gli Emirati Arabi. Senza dimenticare la Russia.
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