L’ombra di Mario Draghi su due importanti nomine decise ieri dal Consiglio dei ministri. I prescelti sono Fabio Panetta, che dal 1° novembre prossimo prenderà il posto di Ignazio Visco come governatore della Banca d’Italia, e il generale Francesco Paolo Figliuolo, indicato come commissario alla ricostruzione dopo l’alluvione in Romagna. A prima vista, appunto, sembra che siano uomini vicini a Draghi quelli che possono trarre d’impaccio l’esecutivo Meloni nei momenti di difficoltà. In realtà, non è del tutto così.



Panetta, serissimo civil servant prima che uomo di banca, è draghiano più per profilo istituzionale e ruolo europeo che per formazione e collocazione politica. La Meloni lo avrebbe voluto al suo fianco come ministro dell’Economia, ma in quel momento l’Italia non poteva perdere il posto nel comitato esecutivo della Bce occupato da Panetta, che già da allora sembrava un predestinato a ereditare la poltrona più importante di Via Nazionale. Quella stessa poltrona occupata poi da Giancarlo Giorgetti con cui pare non corra buon sangue. Si è formato alla Luiss di Roma e poi alla London School of Economics, un percorso molto diverso da quello di Draghi che dopo la laurea alla Sapienza si è perfezionato al Mit di Boston, e lontano dalla Bocconi di Milano da cui provengono – tra gli altri – Mario Monti e Francesco Giavazzi, economista già consigliere economico di Draghi a Palazzo Chigi. Il curriculum di Panetta è poi tutto interno a Bankitalia, a differenza di Draghi che si è concesso un breve periodo alla banca d’affari Goldman Sachs. In un ricettario di cucina, si direbbe che Panetta è un draghiano “qb”, quanto basta. È un democristiano, e sicuramente non è vicino al Pd.



Più riconducibile al periodo di Draghi premier è invece Figliuolo, che fu il simbolo della riscossa italiana contro il Covid. L’alto ufficiale degli alpini gestì la vaccinazione di massa con successo, portò la gran parte degli italiani a farsi immunizzare e ne uscì con la medaglia di super organizzatore nelle situazioni di emergenza. Tuttavia, questa volta Figliuolo, per quanto uomo dal profilo incontestabile, parte azzoppato nel gravoso compito di ricostruire le zone della Romagna alluvionate. Il primo problema per lui sono i tempi della nomina. Sono passate troppe settimane dai giorni dell’acqua e del fango, un tempo in cui il messaggio consegnato dal Governo è quello di una situazione che sostanzialmente poteva aspettare.



I ritardi sono tutti interni al Governo e dovuti al braccio di ferro tra il ministro Matteo Salvini e la presidente del Consiglio. Entrambi non volevano il governatore Stefano Bonaccini (Pd), sul quale pendono ancora diversi interrogativi riguardanti l’utilizzo dei fondi europei per la manutenzione del territorio; ma lei voleva un tecnico, probabilmente Guido Bertolaso, ora assessore al Welfare della Regione Lombardia. Così, tra un veto e la ricerca di una figura locale che non figurasse come un favore all’area politica che governa la regione alluvionata, è passato un mese e mezzo dalla seconda ondata di fango.

Ma c’è un altro motivo per cui su Figliuolo si addensano parecchi dubbi. Nell’epoca dei vaccini, il generale si è mostrato un grande esperto di logistica e di distribuzione. Ma qui l’emergenza in senso stretto è finita da un pezzo, non ci sono volontari da smistare, gli sfollati sono relativamente pochi: ora si tratta di vagliare progetti, programmare opere, ricostruire case e aziende, amministrare miliardi di euro. È davvero questo il suo mestiere?

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