Il film è tratto da un romanzo di Paolo Cognetti, pubblicato da Einaudi nel novembre del 2016 e che, a un anno esatto dalla sua uscita, è stato tradotto in ben 35 lingue. Si tratta di una produzione italo-belga- francese, diretto da una coppia di registi belgi, Felix Groeninger e Charlotte Vandermeersch. È la storia di un incontro, di un’amicizia tra un ragazzo di città, Pietro, e un ragazzo di montagna, Bruno. Entrambi con un rapporto problematico con le loro famiglie.



Il luogo di questo incontro è un paesino, Grana, alle falde del Monte Rosa, ma il luogo vero dell’intera storia è la montagna. Il titolo appunto (“Le otto montagne”) non ha nulla a che fare con gli “ottomila”, termine con cui si è soliti indicare le 14 montagne più alte della Terra, quelle che superano appunto gli ottomila metri di quota e che sono tutti situati in Asia. Ambientato per lo più in Val d’Aosta, il film tiene incollati alla poltrona, grazie a una narrazione che non conosce cadute di tensione, con attori (Luca Marinelli e Alessandro Borghi) molto bravi , naturali nella recitazione, credibili nel dare vita all’amicizia tra Pietro e Bruno.



Forse uno dei motivi per cui visivamente il ritmo del film regge fino alla fine, pur a fronte di 147 (!) minuti di pellicola, è quello di aver colto il volgere dei tempi e delle stagioni in montagna. Ciò ha portato al fatto che fotografia, luce e immagini sono poetiche, così come lo è la natura, quando la si avvicina con quella familiarità, capace di esaltarne gli angoli più riposti.

Trama

Bruno cresce selvatico tra i boschi e le mansioni tipiche di un montanaro, mentre il padre è in giro per il mondo a fare il muratore. Pietro invece vive in città. Il padre lavora come ingegnere chimico in una grande fabbrica e appena può scappa in montagna con la famiglia. Pietro insieme al padre scala le vette del posto, alcune delle quali raggiungono i tremila metri di quota. La montagna è l’occasione per coltivare l’amicizia con Bruno, che di anno in anno si rinsalda in un vero legame. Poi le loro strade si divideranno. Bruno va a fare il muratore in giro, mentre Pietro viaggia, scrive e fa il documentarista: sarà spesso in Nepal, a Katmandu, dove si innamora dell’Himalaya. Diversi anni dopo i due si ritrovano a Grana, e qui decidono di restaurare una vecchia baita lasciata in eredità dal padre di Pietro. Bruno sposerà una vecchia fiamma di Pietro, Lara: insieme tenteranno (invano) di rilevare un alpeggio, attività che non andrà a buon fine, così come la loro relazione.



“Le otto montagne”: una sovrapposizione di piani

Il film sviluppa in un’ordinata sovrapposizione di piani soprattutto tre tematiche: l’educazione, l’amicizia e una ricerca di senso. Il titolo, “Le otto montagne” , è tratto da una leggenda nepalese, secondo la quale al centro del mondo ci sarebbe una montagna altissima, il monte Sumeru, circondato da otto mari e otto montagne; la leggenda dice che un uomo nella vita deve scegliere se raggiungere la vetta del monte altissimo oppure scalare tutte le otto montagne. Fuor di metafora significa se sia meglio rimanere legati alla terra (Bruno) oppure porsi in ricerca (Pietro), quindi vagare per mari e per terre, inseguendo i richiami di un sempre “altrove” che soddisfi.

Film e romanzo in apparenza non sciolgono il dilemma. In effetti, le due opzioni, che si resti o che si vada, risultano due facce della stessa medaglia, perché in realtà il vero problema consiste nel dover fare i conti con la domanda di senso. Bruno alla fine verrà dato per disperso sulle Alpi e Pietro tornerà a circumnavigare il mondo: de facto entrambi finiranno per non avere una patria, un “luogo” in cui consistere, anche se per un attimo era apparsa loro la stella luminosa dell’amicizia, che presto però verrà a oscurarsi: Non resta che vagare per le otto montagne per chi come noi sulla prima e più alta ha perso un amico . Di quel luogo umano resta soltanto la “geografia” del ricordo. Scrive Cognetti nel libro: tutte le montagne in qualche modo si somigliano, eppure non c’era niente, lì (in Nepal), a ricordarmi di me o di qualcuno a cui avevo voluto bene, ed era questo a fare la differenza. Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia. Come riuscivi a rileggerla ogni volta che ci tornavi. Poteva esisterne solo una, di montagna così, nella vita e in confronto a quelle tutte le altre non erano che cime minori, perfino se si trattava dell’Himalaya. La montagna diventa memoria positiva di un evento che ti ha segnato più che teatro di una storia destinata all’oblìo. Non c’è rimpianto nel film ma di tristezza tanta.

Romanzo di formazione e film

Film quindi triste e amaro, benché non manchino la bellezza delle montagne, i giochi di luce, le albe e i tramonti, tuttavia aleggia sull’intera storia una ricerca incompiuta di senso: ” Di quello che di noi avevamo condiviso, che cosa ne restava adesso che uno dei due non c’era più?”. È inoltre un film che ricalca quel genere di romanzo che in letteratura si suole definire “di formazione”, un genere che richiama il percorso esistenziale degli adolescenti alla ricerca di una propria strada nella vita, di una propria identità in antitesi ai cliché della società. Da questo punto di vista il romanzo è più riuscito del film.

La questione educativa

Il rapporto con il padre è il leitmotiv un po’ latente in tutto il romanzo. Viene qui in mente la famosa canzone di Antonello Venditti (Giulio Cesare) quando dice “E mio padre una montagna troppo alta da scalare“… la figura del padre come archetipo di traguardi nella vita, che devono essere raggiunti dal figlio. La verità che se i padri hanno dei progetti, i figli hanno dei destini. Sul piano educativo l’assenza del padre può avere delle ricadute negative sulla vita dei figli: quando Pietro consiglia Bruno, che si è separato da Lara dalla quale ha avuto una figlia, di non farle mancare l’affetto, si sente rispondere: “Io so mungere una mucca, so fare il formaggio, so tagliare un albero, costruire una casa. Saprei anche sparare a una bestia. Ma chi mi ha insegnato a fare il padre? il mio no di sicuro“.

Quando si scopre l’amico si apre un mondo

Il film ci dice che la svolta nella formazione di una persona avviene quando si trova un vero amico. Pietro grazie a Bruno scopre l’interesse per la natura e pure il gusto di vivere: Ogni volta che tornavo lassù mi sembrava di tornare a me stesso, al luogo in cui ero io e stavo bene. Tutta la passione che il padre nutriva per la montagna non era bastata a Pietro per fargliela amare, anzi, lo aveva allontanato: è bastato il semplice incontro con Bruno perché se ne innamorasse! Un vero amico ti spalanca tutto un mondo. E anche per Bruno la madre di Pietro rappresenta un incontro : “Mia madre lo faceva leggere a voce alta dai miei libri – Stevenson, Verne, Twain, London- …Bruno capiva quanto lei ci tenesse, forse non gli era mai capitato di valere qualcosa per qualcuno e s’intestardiva a imparare“.

La ricerca di un senso

Il grande potere che ha l’amicizia di cambiare la vita non arriva però fino al punto di illuminare la morte. E se anche l’inizio del film si apre con questa bellissima metafora: “L’amicizia è un luogo che ti attende“, di fatto essa si rivela una bellissima Incompiuta, per dirla con Schubert: In certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare… non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre e all’inizio della propria storia. Non resta che vagare per le otto montagne per chi come noi sulla prima e più alta ha perso un amico. Un vivere che non si compie si può sciogliere in malinconia, qui invece diventa domanda di senso fatta di tristezza e di un’ improbabile preghiera. Davanti a una perdita non resta che il ricordo, la nostalgia. Come si esprimerebbe Montale che, avendo dentro la disarmonia del vivere, sapeva dire: ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto (Forse un mattino, Ossi di seppia ). Può la disarmonia farsi domanda di senso o ancor di più grido?

Oltre il romanzo e oltre il film

Oggi siamo immersi nella cultura del consumismo e del narcisismo. Non è più tanto vero che “chi trova un amico, trova un tesoro”, semmai è più vero che “chi trova un tesoro trova tanti amici”: oggi chiamano amicizia l’affinità elettiva, la corrispondenza istintiva o la prossimità di interessi. Nell’amicizia per Cognetti deve esserci accoglienza e stima, si deve percepire di valere qualcosa per l’altro. Oggi invece osserviamo che gli adolescenti, per farsi accettare nel gruppo, “mendicano” affetto fino al punto di rinunciare a essere se stessi. Ma questo vale anche per l’adulto quando milita in un partito o in una chiesa o in un’azienda; anche in famiglia si possono riscontrare rapporti di potere! Sembra che non esista antidoto al dilagare del bullismo nelle periferie o sui social. È tempo di ripensare la socializzazione com’è stata concepita finora, cioè spersonalizzazione, “intruppamento”. Il senso della compagnia è il senso dell’individuo, della persona singola, perché la persona è un singolo, non è parte di un’immagine collettiva. Bisogna avviare percorsi educativi che portino i ragazzi a scoprire la bellezza della persona e a rimuovere il mito della libertà intesa come il fare ciò che pare e piace , che dà fiato solo a istinto, reattività e narcisismo.

Una domanda che non si fa grido

È autentica religiosità quella di Cognetti, quando dà voce al desiderio di bellezza e di infinito che è in noi: “Il secondo giorno di cammino comparvero, in fondo alla valle, le vette dell’Himalaya. Allora vidi cos’erano state le montagne all’alba del mondo. Montagne acuminate, taglienti, come appena scolpite dalla creazione, ancora non levigate dal tempo” e ancora “Le cime erano bianche, il cielo insolitamente azzurro, una sensazione di miracolo” … la percezione di una bellezza da cielo in terra a miracol mostrare (Vita Nova). Alba del mondo, creazione… alludono a un mistero che è sotto gli occhi di tutti e di cui tutta la realtà è segno. E tuttavia tutta questa prorompente religiosità fatta di bellezza e di infinito non riesce a farsi domanda né nel film, né nel romanzo.

Diversamente accade quando l’amico scompare: qui la domanda di senso esplode per quanto non fino al punto da farsi grido. La religiosità, infatti, non è la fede, così come la domanda di senso non è il grido o “preghiera” perché il mistero “risponda”. Occorre un avvenimento (grazia) perché la splendente religiosità e lo sguardo commosso di Cognetti per il destino dell’amico diventino “fede” e la ragione non deve blindare il mistero fino al punto di presumere ciò che esso possa o non possa fare. La ragione di Cognetti sembra più fermarsi all’assurdo di una storia finita che coltivare l’assurdo che il cuore detta di poter riabbracciare un giorno l’amico ovvero fare il percorso della fede, unica pazzia ragionevole.

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