Si è chiuso, alle 3 del mattino, il Festival di Sanremo 2023, un’edizione bulimica come tutte quelle di Amadeus ma che è stata premiata da ascolti storici, come non se ne vedevano da più di 30 anni, dall’era Baudo. Quest’anno, il quarto e – per ora – penultimo del conduttore come direttore artistico, è stato musicalmente un po’ sottotono, e se dal punto di vista dello spettacolo televisivo, l’abbondanza di canzoni, ospiti, temi e monologhi è stata gestita con professionalità, la cura editoriale ha mostrato qualche smagliatura in più: nella scelta di comici e co-conduttrici, di come organizzare gli spazi politici o istituzionali, come nella vicenda Zelensky, che dopo la lettura di una lettera abbastanza blanda, ha visto l’esibizione del gruppo ucraino Antytila che nessuno si è preoccupato di sottotitolare per far arrivare a casa il senso del testo a tema bellico.
Il Festival si è aperto con l’inno cantato da Gianni Morandi, si chiude con l’inno suonato dalla banda dell’aeronautica militare: Sanremo 2023 è più di un evento televisivo o musicale nazionale, è diventato una cerimonia istituzionale, il palcoscenico di un paese che celebra e ammira se stesso, la sua cultura, il rapporto con l’Europa che la politica fatica ad avere. Tutto pare un po’ troppo ingessato e compito, molto meglio quindi l’ingresso di Morandi che, chitarra alla mano, omaggia l’amico Lucio Dalla con emozione sincera e talento, cantando alcuni dei suoi brani più belli e salutandolo, dito al cielo.
A condurre con i due presentatori torna Chiara Ferragni, ancora più fredda e fuori posto, tutta impostata e ligia al suo copione di auto-determinazione femminista che però pare molto meno puntuale su Rai 1 che sul suo profilo. A proposito: l’unica cosa di cui si è parlato in tutta la serata sono stati i profili social dei conduttori, le battute sui follower, i meme, Instagram e via dicendo (nulla). Gli autori, in palese difficoltà, dovrebbero riflettere un po’ sulla loro idea di simpatia.
Sanremo 2023, i vincitori
Ha vinto, come previsto, Marco Mengoni, alla seconda vittoria dopo dieci anni dal successo di L’essenziale: Due vite ha vinto anche il premio come miglior musica; al secondo posto è arrivato Lazza, al terzo la sorpresa Mr. Rain, al quarto Ultimo e quinto il rinnovato Tananai. Un verdetto banale, almeno nella vittoria, ma comprensibile e in parte meritato, alla luce del brano e del suo interprete stasera potente. Colapesce e DiMartino, decimi, hanno vinto i premi della critica delle due sale stampa; Coma Cose, tredicesimi, il miglior testo.
Gli ospiti di Sanremo 2023
I Depeche Mode su quel palco sono un bel colpo della direzione di Amadeus, visto che con la nuova politica di contenimento costi, i grandi artisti internazionali latitavano e intendiamo quelli veramente grandi: il gruppo elettronico inglese lo è sul serio, lo dimostra suonando e cantando (quasi) dal vivo con carisma superiore due pezzi, uno dedicato allo scomparso Andy Fletcher e l’altro è il loro splendido classico Personal Jesus.
Tra i pilastri della canzone nostrana, la serata finale tocca a Gino Paoli, uno dei primi veri e propri cantautori nostrani, che accompagnato al piano da Danilo Rea canta tre delle sue canzoni migliori, Una lunga storia d’amore, Sapore di mare e ovviamente Il cielo in una stanza. A un certo punto rischia l’incidente diplomatico rivelando cose compromettenti parlando del passato, ma è un venerato maestro, a lui si perdona tutto. Nella seconda parte della serata arriva invece Ornella Vanoni, anche lei con medley di grande successi, che gioca un po’ ironica un po’ no con il nuovo status di donna rintronata, a cui, come il collega, è concesso di dire e fare tutto, e pazienza che l’imbarazzo affiori tra un classico e un altro.
Sul Suzuki Stage, Achille Lauro mostra il suo nuovo lato, quello che ha smesso di divertirsi, che fa il divo sacrificale, che punta a uno spettacolo corposo fatto di fuochi e suoni rock che distolgano dal modo in cui la sua musica si è sgonfiata dalla vitalità iniziale; sulla Costa Crociere invece Salmo prosegue il discorso cominciato nel duetto con Shari e canta una sua energica e riuscita versione di Diavolo in me.
L’angolo fiction, ossia la tassa che paghiamo all’auto-pubblicità, vede ospite Luisa Ranieri, con un abito nero favoloso e fasciatissimo, con micidiale spacco, che presenta l’ultima puntata di Le indagini di Lolita Lobosco.
Le pagelle di Sanremo 2023
Elodie (Due): fasciata di un abito magnifico, nero, elegante, merlato e sexy, ha una padronanza del brano che ormai la consacra, con una punta di emozione che un po’ si fa notare nel finale. E va bene così, la rende più umana. Nota di merito per la direttrice d’orchestra anche corista. 7
Colla Zio (Non mi va): completo total black dopo un festival da arcobaleno colorato, è uno dei pochissimi brani, se non l’unico, senza pretese diverse dal divertimento. Loro paiono capitati per caso, anche vocalmente acerbi, però trasudano simpatia. 6-
Mara Sattei (Duemilaminuti): Damiano dei Maneskin ha scritto il pezzo con Thasup ma il suo apporto è impercettibile, la sua banalità musicale o lirica lo accosta a quel tipo di proposte giovani, in voga soprattutto fino a qualche anno fa, che ci tengono a copiare i “vecchi”. Per una Pausini che ce l’ha fatta però, in decine hanno fallito. Augurandoci il contrario per Sattei, le consigliamo di cambiare strada. 5
Tananai (Tango): il più elegante dell’intero festival e il più umile, oggi si è presentato in smoking di classicità eccezionale. La canzone si è rivelata ascolto dopo ascolto la più bella sorpresa del festival, classica ma poco tradizionale, sulla scia dei cantautori melodici che Sanremo ha sempre snobbato (da Bindi in poi) con uno dei ritornelli migliori della gara. È il primo pezzo che la sala stampa ha cantato con gioia, il primo vero applauso della serata. 7-
Colapesce e DiMartino (Splash): non hanno bisogno di essere diversi da loro stessi, si abbigliano come di consueto e hanno un pezzo dal ritmo implacabile che interpretano con grande vis. Si balla e non ci si ferma in sala stampa. 7
Giorgia (Parole dette male): scherza sul suo bisogno di fortuna, e ci mette un po’ a concentrarsi, a riprova di un pezzo poco accattivante e abbastanza complicato (è uno di quelli che su disco migliora nettamente). La mano di Big Fish, qui direttore d’orchestra, altrove dj e produttore, si sente nei suoni, meno sul palco. 6+
Modà (Lasciami): anche loro completamente neri nel look, non hanno la minima idea di cosa sia la sobrietà, anche musicalmente, però hanno uno dei ritornelli più possenti del festival, di quelli che si faticano a non cantare, magari sentendosi in colpa. 5,5
Ultimo (Alba): in smanicato, per sottolineare “i bordi di periferia” da cui viene e a cui deve il successo, ha un pezzo che per due terzi dimostra un’evoluzione sonora e compositiva, persino (non troppo) lirica, ma poi le urla del finale riportano a un livello terra terra che va bene da ragazzino, poi fa un po’ tristezza. Però ha successo, quindi, vittoria o no, ha ragione lui, specie se poi la seconda performance è per voce, abito e pianoforte, la migliore di tutto il festival. 5,5
Lazza (Cenere): Dardust è un geniaccio della produzione, capace di evolvere la techno e l’elettronica in chiave pop e tradizionale. Quello di Lazza, in completo rosso, cravatta e guanti neri, che coinvolge il pubblico come in concerto (e alla seconda volta che lo canta “gli parte la brocca” e porta fuori tutta l’emozione), è un pezzo esemplare nella sua capacità di mettere d’accordo mondi diversi, e la classifica parla chiaro. 6,5
Marco Mengoni (Due vite): entra come Papa, sperando di non uscirne cardinale, sera dopo sera è migliorato nell’interpretazione e nella confidenza col palco, oggi poi la tira al massimo e quel finale strappa gola sta lì a impedire a chiunque di togliergli la vittoria. Che gli vuoi dire? 7
Rosa Chemical (Made in Italy): camicia bianca tagliata sui capezzoli, a favore di FantaSanremo, e solita carica leggera e sfacciata; ed è quella leggerezza che piace a tutti, dai ragazzini al pubblico dell’Ariston, davvero fluida e senza etichetta. E lui si prende tutti gli spazi che può, sul palco e in platea, twerka su Fedez, lo seduce, lo imbarazza, lo bacia. Eroic*. 7,5
I Cugini di Campagna (Lettera 22): la cosa meno aspettata di tutto il festival, i dinosauri che portano il pop migliore, scritto dalla band migliore nel genere, ossia La Rappresentante di Lista, con una tensione ritmica nel giro di basso e armonica che spesso lascia senza parole. Poi c’è il carrozzone di zeppe e paillettes arcobaleno, ma la voce di Nick Luciani è perfetta e le armonizzazioni ancora hanno il loro perché. 7,5
Madame (Il bene nel male): affronta il palco e la telecamera con calibrata aggressività, delicata come la violenza trattenuta, vestita come una sposa perversa, si permette ancora variazioni e virtuosismi che forse non sa ancora gestire a pieno; però il pezzo trascina e ha uno dei due o tre testi migliori della gara. L’ovazione dell’Ariston è una sorpresa, meritata, al di là delle polemiche. 7+
Ariete (Mare di guai): Calcutta ai testi e Dardust devono adattarsi allo stile adolescenziale e pastello della cantante, ci riescono, anche se il pezzo resta medio, nobilitato dalla tenera sincerità dell’interpretazione. 6
Mr. Rain (Supereroi): porta all’acne, giustamente, tutto il carico ruffiano ed emotivo di quel ritornello, di quella melodia ricattatoria che si appiccica all’orecchio, dei bimbi che doppiano col coro. Ci puoi pure credere ma sai che è una bugia; e quando la ricanta senza i bimbi, lo si nota di più. 5
Paola e Chiara (Furore): glitterate all’inverosimile tanto da non distinguersi dalle paillettes e quell’atmosfera eccessiva si riversa nel cantato sguaiato; quando sull’ultimo ritornello il tono si alza, l’imbarazzo della sala stampa era palpabile. 5-
Levante (Vivo): il pezzo più sottovalutato dai voti di tutte le giurie, segno di un’evoluzione visiva, sonora e autoriale che cerca di mettere in difficoltà le etichette e le categorie. Andamento teso ed elettronico, esplosione liberatoria e grande efficacia comunicativa che sembra cozzare con un look alieno. Chissà perché piace così poco. 8-
LDA (Se poi domani): non siamo del tutto certi, ma forse è il pezzo peggiore della gara, non per una questione di oggettiva bruttezza, magari anche, ma soprattutto perché è quella che dimostra una minore cura compositiva, di testo (i cuori sulla sabbia?), di melodia, di presenza scenica. Una squadra cadetta finita in Champion’s League. 4
Coma Cose (L’addio): teneri, sinceri, delicati nonostante il curioso colore e forma dei capelli di California, per qualcuno sono infantili, hanno un pezzo bello da sentire, ma soprattutto da vedere, che deve metà della sua riuscita al modo in cui i due la interpretano e mettono in scena. Un pezzo sentimentale per occhi e orecchie sentimentali. 7+
Olly (Polvere): abbigliato da Dean Martin, camicia aperta e rosa all’occhiello, ha preso confidenza col palco e gioca con un filo di malizia a favor di platea e camera, in attesa del ritornello da urlatore. Il pezzo non è granché ma può divertire con moderazione. 5+
Articolo 31 (Un bel viaggio): anche loro in completo nero, hanno dalla loro una certa genuinità, quella che nel giro di chiama street credibility, la usano per coinvolgere il loro pubblico, ma tutti gli altri rimangono freddi di fronte a un pezzo che musicalmente è deboluccio. 5,5
Will (Stupido): ha lo sguardo spaventato o assonnato, cantando all’una di notte sarebbe anche comprensibile, però canta correttamente uno dei pezzi più blandi dell’intero lotto festivaliero. 5
Leo Gassmann (Terzo cuore): anche lui di nero vestito, con apertura dietro sulla schiena, ha un pezzo che nicchia copiando la chitarra di Love Yourself di Justin Bieber e poi esplode nel ritornello molto ben concepito. Ha presenza e carisma e lo sfrutta abbastanza bene. 6
gIANMARIA (Mostro): forse il migliore dei giovani, diretto e istintivo, fragile e tenero, con una voce sbilenca che però sembra personale, acerba ma espressiva. Si balla, certo, ma in quelle sgraziatura ci si sente una personalità. 6,5
Anna Oxa (Sali): è il brano più coraggioso di tutto il festival, per testo spirituale, scalate vocali, struttura musicale, ambizioni e atmosfere. Poi però lei arriva vestita in palandrana nera e capelli da guru indiano, piedi scalzi e reiterata attitudine da santona, ed è difficile concentrarsi su altro che sulla sua immagine, la quale al contrario dei Coma Cose, rovina il pezzo. 6
Gianluca Grignani (Quando ti manca il fiato): supera ogni tipo di insulto e difficoltà, con l’andamento di quei cantanti spezzati dalla vita e che cantano quel dolore. Poi stavolta, al netto di un pezzo davvero difficilissimo per intensità e timbri, azzecca quasi tutto. E quel finale strappa via tutti i peli dalla pelle. 7,5
Sethu (Cause perse): dietro tutto quel baccano, quella trascinante e velocissima cassa, quell’attitudine da ultimo della classe e in classifica, si scorge una personalità, il tempo dirà se saprà esprimerla compiutamente. 6