Nulla di nuovo sotto il sole della Commissione europea, ancorché prossima al rinnovo dopo il recente voto. I raggi del suo approccio ragionieristico ai conti pubblici continuano a illuminarne, si fa per dire, le decisioni adottate in relazione ai disavanzi di bilancio dei Paesi cicala, quelli considerati “non frugali”.



Questa critica nulla toglie in realtà alla considerazione che il disavanzo pubblico dell’Italia, gonfiato dai crediti edilizi generati dal Superbonus, sia davvero eccessivo e che quel provvedimento sia stato, in quanto privo di limiti di spesa, irragionevole e irresponsabile. Insomma, abbiamo fatto proprio di tutto per farci trovare coi conti in disordine (disavanzo al 7,4% del Pil contro la regola di Maastricht del 3%) e dare l’occasione di farci mettere dietro la lavagna in attesa di porre rimedio al problema. Ma l’essere in difetto non rende di per sé ragionevoli e condivisibili le decisioni in corso d’adozione.



Che la Commissione europea avrebbe aperto una procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia era del tutto prevedibile e inevitabile e non ci consola più di tanto l’essere in compagnia di un Paese di grande rilevanza e a lungo risparmiato da una simile decisione come la Francia (oltre al Belgio e ad altri Paesi dell’Est Europa). Tuttavia, la decisione non è stata automatica, e non tutti i Paesi contabilmente fuori linea sono stati interessati dalla medesima, ma solo coloro per i quali il deficit in eccesso non è stato considerato una deviazione “temporanea e limitata”, una clausola che attribuisce alla Commissione un certo potere discrezionale, declinabile dunque secondo ragioni anche politiche, e che le ha permesso di esentare altri Stati (per esempio, Spagna e Finlandia) che pure hanno presentato un deficit superiore alla soglia.



I Paesi oggetto di procedura d’infrazione dovranno impegnarsi in un percorso “a gradini” di correzione del disavanzo da avviarsi entro un semestre e che dovrà proseguire e produrre i suoi effetti in un arco temporale di 3-5 anni, ma prolungabile sino a 7, in base alla consistenza del differenziale rispetto al valore obiettivo. Il percorso di rientro è definito dai Governi nazionali ma in stretto coordinamento con la Commissione, il cui ruolo è evidentemente esercitato da una posizione di forza, dato che avrà voce in capitolo non solo sull’entità delle correzioni ma anche sulle singole misure da adottare.

Anche se le multe in linea teorica adottabili verso i Paesi inadempienti, così come i tagli al loro accesso ai fondi comunitari, appaiono tuttora poco probabili, in continuità col passato della Commissione, la semplice collocazione in procedura d’infrazione genera effetti potenzialmente negativi sull’accesso dei Paesi interessati al mercato dei prestiti e al costo dei medesimi. Essa non aiuta a contenere lo spread sui bond e a facilitare la loro collocazione sui mercati finanziari, i quali prendono evidentemente atto del maggior rischio, percepito dalla stessa Commissione, sul debito del quel Paese e lo “prezzano” in termini di pagamento di interessi più alti. Ma, trattandosi di una decisione da tempo attesa, è probabile che tutto questo non debba verificarsi in futuro, ma sia in realtà già avvenuto.

Occorre dunque contenerlo, e avviare un percorso di segno contrario per il quale è evidentemente necessario saper sfoderare una notevole virtù economica, che consiste non solo e neppure principalmente in un’adeguata conduzione della finanza pubblica, che è indispensabile, quanto nella continuazione di un percorso di crescita dell’economia reale. È infatti la crescita economica l’unica bestia da soma in grado di reggere il gran peso del debito pubblico. Questo percorso di sostenibilità del debito è evidentemente favorito dalla stabilità politica del Paese, che ha trovato conferma nell’esito del recente voto alle elezioni europee, in maniera opposta alla crescente instabilità che era stata invece un fattore chiave alla metà dell’anno 2011 ai fini dell’emergere della crisi del nostro debito sovrano.

Posto che i Paesi collocati in procedura d’infrazione dovranno proporre e realizzare un processo d’aggiustamento “ex post”, quantificabile in almeno mezzo punto percentuale annuo di riduzione del disavanzo strutturale sul Pil (poco più di 10 miliardi nel caso dell’Italia), le relative modalità non sono ancora state proposte dalla Commissione e probabilmente non lo saranno sino all’autunno, periodo nel quale tuttavia i Paesi che, come l’Italia, non rispettano i due parametri di Maastricht sulla finanza pubblica, dovranno presentare, in virtù di altro provvedimento normativo dell’Ue, anche un piano pluriennale (di 4 oppure 7 anni) di aggiustamento “preventivo” strutturale della finanza pubblica, in grado di ricondurre il percorso debito/Pil su un sentiero ragionevolmente decrescente.

Si rischia in sostanza un ingorgo di adempimenti che appaiono intersecarsi in maniera non coordinata e che non appaiono del tutto coerenti col fatto che la finanza pubblica di un Paese è unitaria e come tale va programmata e gestita. Un momento di chiarezza dovrebbe essere la formulazione, attesa in questi giorni da parte della Commissione, di percorsi per la dinamica futura della spesa primaria (al netto degli interessi) dei Paesi interessati, da seguire per il raggiungimento degli obiettivi. Tuttavia, tali percorsi non saranno resi pubblici al momento ma oggetto di dialogo sino alla presentazione in autunno da parte dei Paesi dei piani pluriennali per la loro approvazione da parte della Commissione. In sostanza l’incertezza è destinata a proseguire: i singoli Paesi dovranno fare dei compiti, e quelli meno virtuosi in misura maggiore, ma al momento essi non sono ancora stati assegnati e non sappiamo se sono già in mente nel “corpo docente” della Commissione Ue.

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