Dopo l’avvio della procedura d’infrazione per deficit eccessivo da parte della Commissione europea si cominciano a fare i conti su quello che sarà il suo impatto sulla finanza pubblica italiana. Di certo si sa che sarà necessaria una correzione del disavanzo strutturale di almeno lo 0,5% annuo, pari a circa 10 miliardi di euro, una cifra non certo trascurabile. «È vero che non è poco – ci dice Nicola Rossi, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata -, ma francamente non mi sembra un ostacolo insormontabile per il Governo, che ha dinanzi un percorso non agevole, ma in ogni caso fattibile».



Un percorso che potrebbe essere aggravato dalle nuove regole del Patto di stabilità che prevedono una trattativa tra Roma e Bruxelles sulla traiettoria tecnica di rientro dei conti pubblici e sul Piano strutturale di bilancio che il Governo dovrà presentare entro il 20 settembre?

Credo che l’Esecutivo chiederà di spalmare l’aggiustamento previsto dalla traiettoria tecnica su 7 anni, anziché 4, e questo contribuirà a non renderlo eccessivo. Chiaramente le nuove regole del Patto di stabilità sposteranno molto l’attenzione sul lato della spesa. Uno spostamento che considero del tutto positivo dopo che tra il 2020 e il 2022 c’è stato un aumento abnorme della spesa, solo in parte recuperato. Se queste nuove norme europee ci aiuteranno a rientrare del resto di quell’aumento credo che si tratti di una notizia benvenuta.



Bisognerà però fissare delle priorità per gli interventi da inserire nella prossima Legge di bilancio…<

Ho la netta sensazione che le cose che si potranno fare saranno poche. Il rinnovo del taglio del cuneo fiscale mi pare sia già stato identificato come una priorità da parte del Governo e ho l’impressione che non ci sarà molto altro.

Si potrà portare avanti il percorso della riforma fiscale?

Penso di sì, anche perché mi sembra che finora si sia andati avanti molto prudentemente. La mia sensazione è che ci siano margini, non enormi, ma significativi di recupero di risorse sul versante delle spese fiscali. Mi auguro vivamente che quella strada possa essere percorsa.



Intanto è arrivato il decreto legislativo sul concordato preventivo biennale. Cosa pensa di questo strumento? Potrà funzionare?

Mi auguro di sì. Naturalmente come sempre il diavolo è nei dettagli e bisognerà fare attenzione alla modalità con cui effettivamente si provvederà a identificare il carico fiscale per le imprese che decideranno di aderire. In ogni caso mi sembra una modalità abbastanza intelligente per dare certezze alle imprese e per certi versi anche al fisco. Non riesco a intuire le ragioni che hanno portato alcuni commentatori a strapparsi le vesti di fronte al concordato preventivo.

C’è chi ritiene che, per invogliare l’adesione da parte delle imprese, potrebbe essere individuato un reddito, su cui calcolare poi le imposte, inferiore a quello che poi effettivamente verrà conseguito…

Per invogliare un contribuente ad aderire bisognerà offrirgli la certezza, come la norma consente di fare per un biennio, su quanto dovrà pagare, ma non credo che necessariamente gli vada offerto un carico fiscale molto più basso di quello che avrebbe dovuto sopportare. Mi sembra un’eventualità che non capisco come possa verificarsi, non riesco proprio a intravvedere nel concordato preventivo un condono preventivo, per così dire. E poi va evidenziata una cosa importante.

Quale?

Che se le cose per l’impresa non dovessero andare bene come sperava e conseguisse un reddito sotto le attese dovrà comunque versare quanto pattuito. A me sembra che al contribuente e al fisco si chieda una valutazione non facile su quelli che sono i guadagni in periodi normali. Vedo le potenzialità, anche i rischi sia per il contribuente che per l’Agenzia delle entrate, ma mi sembra che alla fine il concordato preventivo possa essere di qualche interesse per le imprese che vogliono una certezza sulle imposte che dovranno pagare di biennio in biennio. E rappresenta una certezza anche per il fisco che sa quanto incasserà.

Intanto, nonostante il taglio operato a inizio mese, considerando i tassi reali, la Bce sta continuando a portare avanti una politica monetaria restrittiva.

Siamo di fronte a tassi di inflazione che tendono al 2%, ma nella media dell’Eurozona restano ancora sopra, soprattutto considerando l’inflazione core. A me il livello dei tassi reali sembra del tutto normale, fatico quindi a vedere una politica restrittiva. Certo, dopo un decennio di abbondante liquidità la situazione attuale può apparire come un’improvvisa restrizione, ma forse si sta solamente tornando alla normalità.

In Italia, però, gli ultimi dati parlano di un’inflazione sotto l’1%…

Questo è verissimo, ma ha a che fare con una questione diversa: con il fatto, cioè, che una politica monetaria in un’area come quella dell’euro può naturalmente presentare delle disomogeneità. È una questione, però, che attiene alla costruzione europea, non alla desiderabilità di una politica monetaria più o meno restrittiva in questa fase.

Cosa può fare l’Italia per mitigare questa stretta più forte?

Detto con franchezza, non credo che si possa fare molto, se non invitare la Bce a tenerne conto. Ma non vedo perché la Bce debba tenere conto del singolo caso italiano. Il problema vero è che continuiamo ad avere un problema di disomogeneità rispetto al resto dell’Eurozona per questioni di carattere nazionale sulle quali dovremo ragionare, come quella molto seria della produttività stagnante.

(Lorenzo Torrisi)

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