Concluso il dibattito sulla Legge di bilancio – peraltro piuttosto caotico e che ha dato rilievo più a punti molto secondari (pos, debiti delle squadre di calcio, app 18 e simili) e che implicano solo una piccola frazione dei 35 miliardi della manovra-, ora Governo e Parlamento dovranno concentrarsi sul programma da attuare nel 2023.



La politica economica nell’anno che sta per aprirsi ha due aspetti: uno congiunturale (ossia come affrontare un ciclo economico caratterizzato da recessione e da inflazione) e uno strutturale (quali riforme affrontare). Soffermiamoci sul secondo aspetto. Molte riforme sono dettagliate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, che è – spesso lo si dimentica – un contratto tra l’Italia e gli altri 26 Stati dell’Unione europea. Due di grande rilievo sono state annunciate durante l’elaborazione e la discussione della Legge di bilancio: previdenza e lotta alla povertà (modificando profondamente quel “Reddito di cittadinanza” che ha creato più problemi di quelli che ha risolto).



Soffermiamoci su queste due riforme, che comportano un riassetto molto profondo del “welfare”, ossia dello Stato sociale. Sono temi su cui ho lavorato per oltre cinquanta anni sia in sedi internazionali (Banca Mondiale, Consiglio d’Europa, Commissione europea, Organizzazione internazionale del lavoro), sia al ministero del Lavoro e in vari centri studi italiani. Credo, quindi, che posso dare qualche suggerimento non richiesto.

Cominciamo dalla previdenza. Dopo circa trent’anni dal suo varo, la riforma del 1995 richiede una manutenzione sia perché l’aver previsto un periodo di transizione di 18 anni (invece di 3 come per l’analoga riforma effettuata, sempre nel 1995, in Svezia) ha provocato varie storture, sia perché le dinamiche economiche e demografiche si presentano molto differenti da quelle che si ipotizzavano trent’anni fa. In sintesi, non si può contare su una crescita economica del 2% l’anno e il processo d’invecchiamento è più rapido di quanto previsto allora. Se non si interviene, gran parte di coloro che oggi hanno 40 o anche 50 anni, e quindi hanno titolo a un trattamento interamente contributivo, avranno in pensione assegni molto bassi dato che la rivalutazione dei contributi versati è agganciata alla crescita reale. Non sarà necessaria né utile un’età prefissata di “pensione di vecchiaia” perché il sistema indurrà comunque a restare al lavoro il più a lungo possibile, dando al tempo stesso la massima flessibilità; se si vuole lasciare il lavoro presto, lo si farà sapendo che si avrà un assegno previdenziale bassissimo.



Si potrebbe seguire quello che hanno fatto molti Paesi, e in Italia delineato in una proposta di legge presentata, nel lontano dicembre 2009, alla Camera da Cazzola e altri e al Senato da Treu e altri: una base semplice, chiara e pulita per un sistema simile a uno sgabello a tre gambe: i) una finanziata dalla fiscalità generale ed eguale per tutti come pensione di vecchiaia (da riscuotere non prima dei 67 anni o di altra età determinata da criteri connessi all’aspettativa di vita); ii) una rigorosamente contributiva e “flessibile” (prima si va in pensione più piccolo è l’assegno); iii) una interamente privata (con l’impegno di non cambiare ogni due-tre anni l’imposizione tributaria).

Naturalmente, è indispensabile una separazione rigorosa tra previdenza e assistenza e che si faccia piena chiarezza sui contributi versati senza dare luogo a prestazioni, da milioni di lavoratori, noti come “contributori silenti” (lavoratori deceduti senza diritto a pensione, lavoratori deceduti senza superstiti, stranieri rimpatriati con bassa contribuzione, lavoratori che hanno versato, ma che poi hanno dovuto/voluto scegliere l’economia sommersa senza avere raggiunto il diritto a prestazione, disoccupati di lunga durata che non riescono a maturare requisiti minimi, donne che hanno perso il lavoro senza avere diritto a pensione, prestazioni previdenziali non riscosse).

Per quanto riguarda il cosiddetto “Reddito di cittadinanza”, occorre ammettere non si tratta di una buona idea applicata male, ma di una cattiva idea gestita peggio. Il problema della povertà c’è, è grave e minaccia d’accentuarsi se la crescita economica non riprende. Le famiglie in povertà assoluta in Italia sono stimate dall’Istat in 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone, il 9,4% della popolazione residente nel nostro Paese. L’incidenza è più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%).

Tutti coloro, sia nel mondo accademico che sotto il profilo operativo, che si sono occupati di lotta alla povertà e di inclusione sociale condividono un punto: la prima difficoltà è quella di identificare i veri poveri e di distinguere quelli la cui povertà può essere alleviata o risolta con il lavoro e quelli che devono essere sostenuti dall’assistenza a lungo, anche per tutta la vita. Questa identificazione può essere fatta solo in modo decentrato e solo in modo decentrato si possono definire le specifiche delle misure adatte a ciascuna tipologia di poveri, ove non a ciascun povero.

Quindi, togliere al più presto all’Inps la funzione di assistenza (ove non di primato) nella lotta alla povertà e riportare l’Istituto a essere “la fabbrica delle pensioni” come la chiamò Giuliano Cazzola nel titolo di un bel libro dell’ormai lontano 1992. Restituire ai Comuni la centralità nella lotta alla povertà, aumentando le risorse per i servizi sociali favorendo l’aggregazione operativa in questo campo tra Comuni piccoli. Si guadagnerebbe in efficienza ed efficacia. Come concluse, oltre un quarto di secolo fa uno studio dell’Università di Roma La Sapienza.

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