Se oggi dovessi reputare quali sono i fattori che maggiormente contribuiscono a realizzare un lavoro di qualità nell’attuale assetto del mercato del lavoro, e in particolare per quel segmento dello stesso caratterizzato da alti livelli di flessibilità e temporaneità, propenderei sicuramente nell’annoverare tra i primi la formazione e le politiche attive del lavoro.
Se i dati ci consegnano un mercato del lavoro caratterizzato da elevati livelli di temporaneità e flessibilità, nonché da un aumento delle transizioni lavorative, risulta chiaro che chi è più predisposto per inclinazione personale alla flessibilità, vuoi per l’età anagrafica piuttosto che per l’ambiente o il contesto sociale in cui vive, sarà portato ad attribuire un valore differente a formazione e politiche attive del lavoro, rispetto a chi ne dà una lettura differente.
Allo stesso tempo si deve evitare di “totemizzare” formazione e politiche attive attribuendo a esse una portata simil-taumaturgica, una sorta di sacralità, quasi che da sole possano risolvere qualsiasi questione o problema che le persone si trovano a vivere nel mercato del lavoro. Come reputo sterile il dibattito sull’articolo 18, soprattutto per il significato che a esso si attribuisce come l’unico feticcio della difesa dei diritti dei lavoratori, penso debba aversi lo stesso approccio metodologico nell’analizzare i temi di questo articolo. Inoltre, si continua a non prendere in considerazione il dato, ormai marginale, del numero delle controversie in materia di licenziamenti individuali immotivati.
Il mercato del lavoro negli ultimi due anni si è caratterizzato per una crescita dei rapporti di lavoro stabili, anche se la tendenza nel periodo macro è orientata a un’oramai strutturata flessibilità, soprattutto se comparata al mercato del lavoro di qualche decennio fa, con una spiccata temporaneità.
A ogni buon conto risulta pacifico come siano sicuramente in aumento le transizioni lavorative, talora necessitate per la perdita dell’occupazione, altre volte volontarie, come ci ha raccontato il fenomeno delle grandi dimissioni esploso con la pandemia. Quale ne sia la causa emerge sicuramente una necessità: per agevolarle c’è assoluto bisogno che i lavoratori siano messi nella possibilità di accedere a percorsi strutturati. E per far questo, la formazione e le politiche attive hanno un ruolo decisivo. Entrambe sono lo strumento sine qua non per porre nelle condizioni tutti i lavoratori di ri-occuparsi, o perché sono rimasti privi di occupazione, o di cambiare lavoro, magari per inseguire un nuovo progetto di vita o le proprie inclinazioni.
Ma la formazione, in particolare, rappresenta una dimensione che va oltre le transizioni lavorative e attiene più propriamente al tema della qualità del lavoro; infatti, è uno strumento formidabile per rendere il lavoratore più protagonista delle dinamiche all’interno della propria vicenda lavorativa. Un lavoratore più istruito e più formato è maggiormente consapevole delle dinamiche in cui si trova coinvolto. Può agevolmente interagire maggiormente con i processi organizzativi e decisionali in cui si trova coinvolto. E una maggiore consapevolezza di sé e dell’esistente lo può portare sicuramente a esercitare un maggiore protagonismo anche nei rapporti con il management aziendale. Inoltre, con l’impiego sempre più massiccio dell’Intelligenza artificiale nell’organizzazione del lavoro, con tecnologie sempre più sofisticate vengono richieste maggiori competenze volte a favorire un’interazione efficiente, efficace ed ergonomica del rapporto uomo-macchina, con un proficuo utilizzo dei nuovi sistemi fondati sull’IA stessa. Non si può poi sottovalutare un altro aspetto fondamentale come la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro: lavoratori più formati, addestrati a utilizzare correttamente i dispositivi di protezione individuale, informati dei rischi derivanti dai processi produttivi che li coinvolgono, riducono sensibilmente il rischio di infortuni gravi sul lavoro.
Inoltre, non possiamo più oramai ignorare come il tema della produttività sia una questione che oggi appare sempre più decisiva per assicurare la sopravvivenza delle nostre imprese all’interno del mercato globale, senza le quali, è bene ricordarlo, non c’è lavoro. Il tema della produttività richiede giust’appunto un grande investimento in tema di formazione. Questo è ancora più vero se osserviamo la difficoltà odierna di far incontrare domanda e offerta di lavoro. Sicuramente il mismatch dipende da diversi fattori che non possono essere qui interamente richiamati per il loro diverso peso specifico, resta però evidente come la formazione sia un elemento essenziale per allineare le competenze con le esigenze non solo dell’oggi ma soprattutto del domani.
Da qualsiasi prospettiva le si vedano, politiche attive e formazione costituiscono due formidabili strumenti di democratizzazione del mercato del lavoro. Democratizzare il mercato del lavoro significa soprattutto dare a tutti le stesse opportunità di accesso al lavoro e a un lavoro di qualità, nonché fare in modo che nessuno sia lasciato indietro e condannato alla marginalizzazione.
Il Sindacato ha posto nella sua agenda ormai da tempo il tema delle formazione e delle politiche attive. E in particolare la Cisl lo ha ribadito nel manifesto “Per un lavoro a misura della persona”. L’azione contrattuale delle categorie produttive e professionali lo ripropone oramai regolarmente. Sempre più contratti collettivi riconoscono il diritto soggettivo alla formazione oppure dei sostanziosi congedi per agevolare la formazione in costanza di rapporto di lavoro.
In particolare il Contratto collettivo nazionale della somministrazione di lavoro, che più di tutti si misura con gli aspetti della flessibilità e temporaneità, lo ha cristallizzato in alcune sue disposizioni prevedendo una serie di misure quali la formazione di base, la formazione “on the job”, la formazione professionale, la formazione continua e permanente. È poi previsto il “diritto mirato a percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale” che assurge alla dimensione di politica attiva contrattuale di settore, essendo destinata ai lavoratori somministrati che hanno cessato il loro rapporto alla dipendenza di una agenzia per il lavoro. Tutti interventi finanziati da Formatemp, l’ente bilaterale di formazione per i lavoratori temporanei, che disciplina la formazione gratuita a migliaia di lavoratori e disoccupati candidati a una missione in somministrazione.
Un siffatto apparato di tutele trova la sua ratio sicuramente nella caratteristica di quello che è il mercato del lavoro della somministrazione, fisiologicamente flessibile e temporaneo, anche nella sua tipologia contrattuale più stabile quale il contratto di lavoro somministrato a tempo indeterminato. Ma giova anche del ruolo strategico che le Agenzie ovvero gli attori datoriali di questo mercato, hanno acquisito. Nessun soggetto privato più di loro è in grado di accompagnare i lavoratori nei percorsi di non lavoro, favorendone il reinserimento o più semplicemente agevolando le transizioni da lavoro a lavoro. Non è un caso che le stesse siano considerate quasi alla stregua di soggetti istituzionali, nell’ambito della promozione dell’effettività del diritto al lavoro e all’accesso a servizi di collocamento gratuito.
Infine, una riflessione conclusiva sull’approccio che, come organizzazioni sindacali, dobbiamo saper stimolare verso i temi della formazione e delle politiche attive. Pur convinto dell’importanza delle stesse, debbo constatare che spesso la loro percezione da parte dei lavoratori sia piuttosto fredda, quasi una sottovalutazione circa la rilevanza per la propria vicenda personale e lavorativa.
Anche la formazione e le politiche attive pertanto dovrebbero diventare più attrattive nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori. Per fare questo occorre migliorare il paradigma utilizzato in questi anni, esclusivamente orientato a misurare la quantità (in termini di risorse economiche, persone coinvolte, ore di formazione erogata, ecc.), passando invece a una misurazione della qualità della formazione e delle politiche attive: si tratta di valutare effettivamente il tasso di ri-collocazione per le misure finalizzate all’inserimento o reinserimento occupazionale, classificare il consolidamento dei percorsi occupazionali o le evoluzioni delle carriere retributive per coloro che hanno partecipato ad interventi erogati tramite il Fondo Nuove Competenze, o di come le transizioni di persone che hanno svolto attività formativa risultino vincenti rispetto a coloro che non hanno avuto questa opportunità. Occorre documentare e sostenere che l’investimento in formazione non è una medaglia per i solo enti di formazione, ma occasione per verificare l’efficacia degli interventi rispetto agli scopi prefissati, incentivando quelle realtà e quelle esperienze che producono risultati migliori, corrispondendo, in questo senso, allo scopo per cui gli enti stessi sono nati. Non dobbiamo foraggiare enti di formazione per garantire la loro sopravvivenza, ma occorre impegnarsi a costruire le competenze che servono al mercato e pertanto ai lavoratori per essere maggiormente tutelati, avendo un po’ di visone e al contempo innovando contenuti, modalità didattiche e strumenti formativi.
Penso che il nostro contributo debba partire da un cambio di prospettiva, evitando di relegare formazione e politiche attive a una dimensione prettamente emergenziale del rapporto di lavoro, ossia quando questo è in pericolo o in occasione di una transizione lavorativa. Occorre una differente narrazione del fenomeno che, pur nel rispetto della realtà, deve mirare a rendere giustizia dell’effettiva dimensione e rilevanza della formazione e delle politiche attive nelle dinamiche dei rapporti fra capitale e lavoro. Vanno rimodulati termini come “presa in carico” et similia che relegano il lavoratore in un ruolo passivo della vicenda, quasi come un peso da gestire.
Formazione e politiche attive debbono essere oggi considerate strumenti per un rinnovato protagonismo della comunità del lavoro e per favorire la realizzazione di quei principi di democrazia economica che la Cisl ha posto sin dalle sue origini come uno dei principi fondanti della sua azione sindacale, e che vede nella proposta di legge sulla partecipazione un momento culminante della sua proposta sindacale per il nostro Paese.
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