“Spazio al desiderio” non è uno slogan astratto, ma una necessità concreta per rafforzare il reale, inteso come uno spazio in cui immaginare, aspirare, costruire. La desertificazione del desiderio, che il Censis ogni anno ci ricorda, è una delle più grandi emergenze del nostro tempo: abbiamo ancorato l’azione alle necessità, spesso create strumentalmente da altri, riducendo il desiderio a un mero strumento di utilità. La Piramide di Maslow è un esempio emblematico di questa visione, quando afferma che solo dopo aver soddisfatto “i bisogni” primari e secondari si può aspirare al “senso”, come se chi chiede un pasto non avesse sogni, chi cerca cure non coltivasse speranze o chi lavora per un compenso giusto non nutrisse ambizioni. Questa frammentazione dell’umano impoverisce il reale, riducendo l’azione a mera risposta immediata ai bisogni, senza immaginare nuovi mondi.
Il desiderio è il luogo in cui nasce l’innovazione. Il cambiamento, infatti, non accade per caso, ma nei pressi di chi lo cerca, di chi lo desidera. Lo abbiamo visto nella storia, con i primi cooperatori: utopisti che hanno ribaltato il rapporto tra capitale e lavoro, spinti da aspirazioni di giustizia e felicità. Per loro, felicità era sinonimo di comunità, non di mero consumo. Oggi, invece, la desiderabilità è ancorata alla logica degli oggetti dal valore “posizionale” (attribuiamo un valore in funzione della posizione sociale che l’oggetto incorpora). Consumiamo, ma questo è in gran parte sconnesso dalla costruzione di una società migliore e desiderabile.
Per agire un cambiamento radicale, bisogna accendere la “nostalgia del mare”, come scriveva Saint-Exupéry. Non basta organizzare il lavoro per costruire una nave; è necessario risvegliare il desiderio di navigare in mare aperto. In un’epoca di trasformazioni caratterizzata dal fenomeno delle “grandi dimissioni” – solo l’8% degli italiani si dichiara coinvolto nel proprio lavoro, secondo Gallup – il desiderio deve tornare al centro. È necessario ripartire da un compenso giusto (su cui l’Italia è colpevolmente indietro), ma le ricerche dimostrano che questo, seppur fondamentale, non basta: le persone cercano coinvolgimento, senso e connessione.
Come si alimenta il senso? Non si può imporlo dall’alto, perché nasce dalla relazione e dal riconoscimento di ciò che le persone desiderano. È nella relazione che emergono le competenze tacite. Adriano Olivetti lo aveva capito. Agli occhi degli stranieri, la sua fabbrica appariva una realtà taylorista, ma in realtà era un laboratorio di cultura e innovazione umanizzata. Diceva: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”. Questa prospettiva tocca tutti i settori e le istituzioni.
L’economia sociale, per sua natura, ha però un compito in più: non limitarsi a rispondere ai bisogni, ma rilanciare la desiderabilità di un futuro comune, rischioso ma necessario. Le grandi trasformazioni si muovono lungo faglie conflittuali – come l’abitare, la cura, la povertà educativa o quella di senso – e richiedono energia e un rinnovato agonismo culturale per contrastare il mainstream. Non possiamo cadere nella “sindrome dei fabbricanti di candele” (F. Bastiat), chiusi nella logica del buio per continuare a vendere lucernai. Per desiderare e innovare, serve un nuovo protagonismo collettivo, capace di abitare i conflitti, risvegliare aspirazioni e ridisegnare il campo da gioco.
Il futuro non si costruisce senza desiderio. È il mare aperto che spinge a costruire la nave.
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