La Società Umanitaria di Milano ha dato vita da tempo a un osservatorio sul mercato del lavoro che è supportato dalle istituzioni territoriali locali e dalle rappresentanze delle imprese e dei lavoratori. Quest’anno cade il 130esimo anniversario della vita di questa importante istituzione che ha come oggetto sociale promuovere assistenza operativa in grado di “mettere i diseredati, senza distinzione, in condizione di rilevarsi da sé medesimi, procurando loro appoggio, lavoro ed istruzione”. In questa occasione il tema affrontato dal quinto appuntamento del Forum Lavoro non è stato dedicato alla storia del lavoro milanese, ma si cercato di mettere a fuoco il lavoro del futuro e le sfide che i cambiamenti in corso pongono alle imprese, ai lavoratori e alle istituzioni.
La relazione che ha sostenuto la giornata di interventi e dibattiti, curata dalla prof.ssa Ivana Fellini, contiene tutti i temi che sono sul tavolo degli attori del nostro mercato del lavoro. Il richiamo generale è alla difficoltà del fare previsioni perché siamo ancora immersi nella fase iniziale di trasformazioni profonde e ne cogliamo i possibili impatti, ma non abbiamo ancora la capacità di misurarne tutti gli effetti.
Le transizioni indotte da digitalizzazione, sostenibilità ambientale e dall’influenza dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali oltre che produttivi portano a profondi cambiamenti nella domanda di lavoro che possono influire e retroagire con i comportamenti dell’offerta di lavoro. L’insieme di ciò va calato nelle specificità strutturali dell’economia italiana con il suo anomalo mercato del lavoro.
La pervasività delle trasformazioni in corso tocca tutte le sfere che riguardano il lavoro: cambiano l’organizzazione della produzione, portano a nuove possibili crescite di produttività e di misurazione salariale, dividono i settori ad alto potenziale di innovazione da quelli su cui l’impatto sarà minore.
Ci sarà certamente un impatto sull’occupazione, nel cambiare le competenze richieste, ma non sappiamo se ci sarà una riduzione secca di occupati, ma già oggi emerge un mismatching qualitativo e quantitativo fra esigenze del sistema produttivo e offerta di lavoro. Il cambiamento riguarda il lavoro in tutte le fasce di qualificazione e la differente possibilità di accedere a infrastrutture di comunicazione determina nuove diseguaglianze e segmentazioni fra professioni, territori e generazioni.
Come tutti i periodi di cambiamento anche questo offre opportunità e rischi che vanno governati. La risposta di un grande processo di formazione rivolto a tutti gli occupati per promuovere nuove competenze e un cambiamento nel sistema educativo e formativo sono certamente i provvedimenti a breve più importanti.
Le nuove tecnologie e le nuove forme di organizzazione del lavoro chiedono, però, una partecipazione dei lavoratori non solo tecnica. Le character skills assumono un’importanza sempre maggiore. È richiesta una partecipazione del lavoratore nel costante problem solving dei bachi lasciati dalle tecnologie, come la capacità di fare gruppo e lo sviluppo delle capacità relazionali. Insomma, la persona al lavoro, espulsa dalle teorie neoliberiste, torna a imporsi con le sue capacità superiori a qualsiasi piattaforma o programma artificiale.
La sfida alle imprese è sul terreno della partecipazione alle decisioni organizzative e di innovazione. Non solo per contenere eventuali diminuzioni dell’occupazione, ma per rendere più efficaci le innovazioni possibili nei cicli produttivi. Un nuovo modello delle relazioni fra le parti sociali è da vedere come uno dei mutamenti che sta crescendo assieme alle sfide del cambiamento produttivo.
Tutto ciò va però calato nella situazione concreta che ha il mercato del lavoro italiano. Perché, come abbiamo visto, i rischi si presentano assieme alle opportunità. Noi abbiamo delle debolezze strutturali del mercato del lavoro italiano che possono esplodere con l’impatto delle trasformazioni tecnologiche in corso. Abbiamo come noto un mercato del lavoro sfavorevole per i giovani. Sfavorevole per le donne e con differenze territoriali, nord-sud, molto accentuate. Complessivamente abbiamo un tasso di occupazione di quasi 10 punti più basso di quanto abbiamo fissato come obiettivo di equilibrio.
A queste caratteristiche si deve aggiungere il fatto che abbiamo un sistema produttivo che offre poca occupazione nei settori con maggiore innovazione nelle professioni con maggiore qualificazione. Rispetto agli altri Paesi europei abbiamo una quota di occupati con basse qualifiche allineate, poi quote di lavoratori con qualifiche medie e alta qualificazione che si equivalgono percentualmente sugli occupati. Francia e Germania hanno dai 10 ai 15 punti in più a favore delle alte qualifiche.
Si comprende facilmente come, dato l’aumento della scolarizzazione delle ultime generazioni, il risultato sia che abbiamo una sottoccupazione per molti giovani con formazione terziaria. Una resa dell’investimento in formazione inferiore a quello degli altri Paesi europei e che ha portato a un’emigrazione all’estero del 15% dei laureati.
La ragione principale della situazione è certamente dovuta alla struttura delle nostre imprese. Il peso delle micro e piccole aziende pesa nell’occupazione di alte competenze e nei tempi di relazione alle innovazioni.
Qui si apre la sfida per la politica. Serve una politica economica che, conoscendo la realtà del nostro sistema produttivo, metta in moto programmi di sostegno per la transizione in corso. Con la possibilità di utilizzare al meglio le risorse del Pnrr si tratta di premiare il lavoro e la produttività contro rendite, bonus e parassitismi. Serve indirizzare risorse certo per un programma di formazione per occupati e per riformare scuola e formazione, ma oltre a ciò deve mettersi in moto una politica industriale che premi innovazione e crescita delle imprese. Perché questo sia comprensibile a tutti, anche la spesa pubblica, e quindi il sistema fiscale, devono scegliere la strada di sostenere lavoro e produzione abbandonando la via dei bonus che sta frenando il Paese.
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