Il sistema fiscale italiano poggia sul principio della progressività, ma è mitigato da qualche “sprazzo” di tassa piatta. Insomma, è un sistema che, lungi dall’essere effettivamente equo, tende a perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza dei cittadini davanti al Fisco.
Di fronte alla lettura delle prime bozze della nuova Legge di bilancio, ci sembra utile avviare una riflessione in grado di mettere al centro il tema dell’effettiva uguaglianza dei cittadini a partire dalla profonda diversità con cui ogni singola categoria può affrontare la crisi nei prossimi anni.
Allora partiamo da una costatazione evidente. In Italia esistono di fatto quattro grandi categorie di contribuenti: i lavoratori dipendenti (tra cui bisogna distinguere i dipendenti pubblici da quelli privati), i lavoratori autonomi e le imprese.
Dal giorno in cui è scoppiata la pandemia – e la fase 2 è solo un aspetto del problema – si è capito chiaramente che il lavoro autonomo e quello dell’impresa sono soggetti a un rischio così elevato che, per ottenere equità, bisogna spostare l’asticella dell’uguaglianza.
Prendiamo, ad esempio, i lavoratori del settore autonomo. Essi, in un momento di crisi così profondo e di cui riusciamo a prevedere solo ora la gravità, soffrono sia in termini di incertezza che in termini economici, perché il loro destino è legato indissolubilmente a quello delle aziende e degli studi professionali nei quali sono impiegati.
Senza per questo volerla additare come privilegiata, non è così per la categoria dei dipendenti pubblici, i quali, pur avvertendo tutti i disagi derivanti dal prolungato lockdown, subiranno poco o nulla gli effetti della crisi economica che ne conseguirà.
È evidente, dunque, che è venuto il momento di rivedere il sistema fiscale italiano in modo da renderlo equo e non semplicemente “uguale per tutti”. Per questo la flat tax non può essere la soluzione per creare equità. La sua introduzione andrebbe a incidere non solo su uno dei postulati della Costituzione, ma renderebbe troppo acceso il dibattito politico in un momento in cui sempre più le divisioni tra categorie e i conflitti territoriali stanno prevalendo.
Abbiamo alcune proposte da avanzare.
In primo luogo, una soluzione potrebbe essere quella di prevedere in favore delle categorie dei lavoratori dipendenti del settore privato una differenziazione di aliquote – per esempio una netta riduzione del 30% – in modo che sia mantenuta la progressività, ma sia anche riconosciuta un’equità collegata al rischio che accompagnerà per anni questi lavoratori. Non si andrebbe a incidere sul cuneo fiscale, ma nel contempo ci sarebbero maggiori risorse in busta paga.
Per quanto riguarda invece il lavoro d’impresa e professionale, sia che venga esercitato nella forma individuale che collettiva, andrebbe introdotto, per entrambe le forme, la medesima tassazione e, dunque, un’aliquota fissa da applicare al reddito imponibile. Solo il successivo uso personale del reddito da parte dell’imprenditore o del professionista andrebbe tassato con le aliquote progressive previste per il lavoro dipendente del settore privato.
Inoltre, andrebbe introdotto un sistema che consenta di trasformare in crediti di imposta i crediti ceduti perché inesigibili. E a tal riguardo vorremmo introdurre un’ulteriore riflessione. Si potrebbe proporre che i crediti che non vengono incassati entro 180 giorni non siano tassati e, contemporaneamente, non siano deducibili per coloro i quali non li avranno pagati. Lo stesso andrebbe previsto per l’Iva, estendendo il principio “dell’Iva per cassa” che consente di versare e compensare solo ciò che realmente è stato oggetto di pagamento.
Al fine di tutelare le ragioni dell’erario il prestatore/cedente che non incassa e che vuole beneficiare della detassazione comunicherà agli uffici che il suo debitore non ha pagato e, dunque, non potrà dedurre il corrispondente costo. Questa conflittualità indotta tra le parti del rapporto commerciale in contestazione spingerebbe alla risoluzione della controversia, mettendo il debitore e il creditore di fronte alla necessità di risolvere la questione in maniera più rapida, evitando una conflittualità spesso strumentale che intasa la giustizia civile di controversie in taluni casi ingiustificate.
Altrettanto interessante potrebbe essere il riconoscimento di un credito di imposta in favore dei proprietari che decidessero di addivenire a rinegoziazioni volontarie dei contratti di locazione in corso. Il credito di imposta, o l’introduzione di una cedolare per i contratti di locazione rinegoziati, manterrebbe la liquidità nelle aziende e nelle famiglie, migliorando la redditività delle aziende e consentirebbe ai proprietari di immobili di sopportare la riduzione del canone, traendo dall’agevolazione concessa un ristoro del sacrificio concesso.