Non è troppo presto, a mio avviso, cominciare a riflettere su quale sarà l’economia “dopo il coronavirus” e iniziare a prepararci a un cambiamento profondo rispetto a quanto si è visto negli ultimi quarant’anni. Ricordiamoci – per le specifiche basta prendere in mano il bel libro di Richard Gardner The Sterling-Dollar Diplomacy: the Origins and Prospects of our International Economic Order – che un paio di anni circa prima della fine della Seconda guerra mondiale un piccolo gruppo di intellettuali, non solo economisti, britannici e americani iniziarono a riflettere su come ricostruire l’ordine economico internazionale dopo il termine del conflitto e le colonne dell’ordine ricostruito sono, in gran misura, ancora portanti. Il coronavirus non ha certo la portata di una guerra mondiale, ma la pandemia inciderà profondamente sul futuro assetto della politica e dell’economia.



Il tema meriterebbe un saggio. Per ora limitiamoci a tre aspetti, ossia all’incidenza del coronavirus su: a) integrazione economica internazionale; b) Cina; c) Italia.

La crisi causata dal coronavirus avrà senza dubbio effetti significativi sulla globalizzazione, in particolare sulla delocalizzazione e sugli scambi nonché sulle politiche nei confronti dell’immigrazione. Negli ultimi quarant’anni c’è stata una forte delocalizzazione di imprese manifatturiere verso la Cina, attratte dai bassi salari e da una regolamentazione piuttosto lasca. Oggi, ad esempio, l’India e il Giappone dipendono dalla Cina per il 60% delle loro importazioni di componenti elettroniche. Gli Usa ne dipendono per il 50%. La crisi del coronavirus ha spezzato queste catene del valore mettendo imprese, e interi comparti, in serie difficoltà.



La Hyundai, il quarto maggior produttore di automobili nel mondo, ha dovuto bloccare alcune dei suoi impianti in Corea perché non riceveva componenti dalla Cina. Per lo stesso motivo in Giappone la Nissan e la Nintendo (una grande impresa di giochi elettronici) hanno dovuto rallentare la loro produzione. Si potrebbe continuare. In breve, si è contato troppo sulla delocalizzazione, in particolare su quella verso la Cina, e al primo scossone proveniente da quello che un tempo fu il Celeste Impero ci si trova nei guai.

Ciò non vuole dire che terminerà il processo d’integrazione economica internazionale, ma che si cercherà di governarlo meglio. Così come in seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009 (provocata in gran parte dalla deregolamentazione selvaggia avvenuta nei vent’anni precedenti negli Stati Uniti) si sono create nuove regole sia nazionali che internazionali, si andrà verso nuove regole per gli scambi e gli investimenti. O meglio si forzerà la Cina ad applicare quelle attuali, ossia il corpo giuridico dell’Organizzazione mondiale del commercio, di cui Pechino fa parte dal 2001 con lo status di “Paese in via di sviluppo” e seguendone le regole in modo molto lasco.



In materia di immigrazione, a torto o a ragione, il timore che i migranti siano portatori di coronavirus – circa 300 migranti provenienti dalla Libia sono stati messi in quarantena a Pozzallo –  rafforza le tesi delle forze politiche che chiedono un governo del fenomeno. Hanno sempre maggior peso in Austria, Francia, Germania, Stati Uniti e Svezia e numerosi altri Paesi e utilizzeranno il coronavirus perché le loro voci siano più forti e abbiano maggior ascolto dalla politica.

Per quanto riguarda la Cina, la crisi del coronavirus apre due tipologie di prospettive non certo gradite all’attuale gruppo dirigente. Da un lato, è chiaro che l’epidemia nata in Cina è stata nascosta per diverse settimane prima che diventasse tanto grave da non poter essere più celata. È la terza, e più grave, epidemia che nasce in Cina negli ultimi vent’anni e infetta tutto il mondo. Cento anni fa, ai tempi del Trattato di Versailles, la comunità internazionale, danneggiata, avrebbe chiesto “riparazioni” a Pechino. Oggi si chiederà, invece, applicazione delle regole e degli impegni. Cosa che non ha mai fatto. E, a poco a poco, si sostituiranno i cinesi piazzati, con la collaborazione di quelli che un tempo venivano chiamati “utili idioti”, alla guida di importanti organizzazioni internazionali. Il processo è già iniziato: la settimana scorsa è stato eletto direttore generale della Wipo (World Intellectual Property Organization) il candidato sostenuto dagli americani: Dareng Tang di Singapore. Non la cinese Wang Binyng che aveva il supporto del ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio (che avrebbe facilmente potuto evitare una cattiva figura).

Sul piano interno, il coronavirus ha messo in luce la fragilità di Xi Jinping, il quale, pur abilissimo nelle manovre all’interno del Partito comunista cinese, non è stato all’altezza: la sua decisione di coprire il problema per oltre un mese ha creato enormi guai interni e internazionali. Non solo in alcune province si è ripreso a combattere per una maggiore autonomia, ma la dissidenza ha rialzato la testa. Ad esempio, Xu Zhangrun, un professore di diritto di una delle più prestigiose università di Pechino, ha ricominciato a pubblicare saggi che chiedono un cambiamento di rotta e il giovane blogger Xu Zhiyong – che si è fatto quattro anni di galera come “nemico della patria” – è tornato a essere attivo più che mai (anche se sembra che un nuovo arresto sia imminente).

E l’Italia? Il coronavirus accentua la recessione iniziata nel quarto trimestre 2019. E le recessioni non fanno mai bene ai Governi, soprattutto a quelli formati da “avversari storici” che si sono alleati unicamente allo scopo di evitare elezioni. A questo Governo, inoltre, si addebita una gestione tardiva e confusa dell’epidemia.

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