Com’è finita la campagna estiva contro le società multinazionali che “trattano il nostro Paese come una colonia” e chiudono gli stabilimenti con gli strumenti del web (come peraltro fanno i Capi di Stato per comunicare tra loro)? “No alle delocalizzazioni!” è risuonato nelle piazze (magari non nelle stesse, né tra le medesime persone) insieme all’altro grido di ribellione (libertà vo’ cercando!) del “No al green pass” I dipendenti della Gkn che sono divenuti i protagonisti di questa battaglia hanno manifestato la loro protesta dietro a uno striscione su cui era scritto addirittura “Insorgiamo”. La multinazionale – che ha parecchi stabilimenti in altri Paesi e continenti – aveva deciso, con pochi scrupoli, di chiudere lo stabilimento toscano e – cessato il blocco – aveva proceduto al licenziamento, poi richiamata all’ordine da un tribunale che le ha ricordato che in Italia esiste una procedura prevista dalla legge, che è necessario seguire prima di procedere a licenziamenti collettivi.
Per motivi ideologici le organizzazioni sindacali avevano deciso di metterla in politica e di risolvere la vertenza nell’ambito di un contesto normativo che prevedesse per le delocalizzazioni una serie di adempimenti sul terreno delle alternative occupazionali per i dipendenti in esubero, a pena di pesanti sanzioni economiche. In sostanza il compito delle politiche attive per trovare un nuovo impiego ai lavoratori licenziati doveva essere posto in capo all’azienda “fellona”. In proposito era circolata una bozza predisposta dal Ministro Orlando e dalla Viceministro del Mise Todde che aveva suscitato numerose critiche, non solo da parte della Confindustria, ma anche di osservatori e altri membri del Governo tra cui il ministro Giancarlo Giorgetti, perché i vincoli eccessivi che erano previsti facevano temere la fuga degli investitori esteri nonché la ritorsione di altri Paesi nei confronti dell’Italia che non è estranea alle delocalizzazioni (vi sono 23mila aziende a capitale italiano interessate con 1,8 milioni di dipendenti).
Eppure il contenuto di quella bozza non era condiviso dalle RSU e dalla Fiom, tanto che erano stati incaricati dei giuristi “democratici” di redigere insieme ai lavoratori un ddl più rigoroso, poi presentato alla Camera da qualche deputato della sinistra di opposizione. Il fatto è che la vertenza sembra avviata a soluzione per le vie normali. “Si apre uno spiraglio – si legge nelle agenzie – per i lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio dopo l’incontro con l’azienda al ministero dello Sviluppo economico. La proprietà ha aperto alla possibilità di un percorso condiviso con le istituzioni, senza minacciare l’avvio di una nuova procedura di licenziamento collettivo e non sarebbe pregiudizialmente contraria neppure alla possibilità di fare marcia indietro sulla messa in liquidazione. Per quanto riguarda la questione occupazionale, alcuni incontri tecnici nei prossimi giorni verificheranno la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali. Soddisfazione da parte dei sindacati”, per i quali dovrebbe suonare un campanello di allarme di carattere più generale. Le aziende che de-localizzano, che ristrutturano o chiudono – almeno le più importanti – non “stanno a pettinare le bambole”, ma appartengono alla filiera dell’automotive e segnalano pertanto un’anticipazione di processi ben più ampi, che si verificheranno nel giro di qualche anno (va segnalato, in proposito, un servizio divulgativo sul Corriere della sera e sul Tg 7 di Milena Gabanelli) in conseguenza delle modifiche tecnologiche e produttive, annunciate forse con troppa fretta. E con scadenze troppo ravvicinate.
Ma – come si sa – in politica le cose vanno avanti per inerzia. Così nella Legge di bilancio il Governo ha presentato un emendamento su questa materia, sia pure con tutte le cautele del caso. L’emendamento non ha accontentato i fautori della linea dura (politici e sindacali). Stefano Fassina – in linea con altri – ha dichiarato che le norme finite nella Legge di bilancio “non hanno elementi di deterrenza, né alcuna funzione anti-delocalizzazione. Sono soltanto misure di razionalizzazione delle procedure di licenziamento collettivo e di ordinato accesso agli ammortizzatori sociali. Prevedono – ha proseguito Fassina – un minimo di buona educazione nella comunicazione del licenziamento da parte di una grande impresa (oltre 250 dipendenti) che, senza dimostrare squilibri patrimoniali o problemi finanziari, chiude”. Ma come stanno le cose?
Al fine di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo, i datori di lavoro che, nell’anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, mediamente almeno 250 dipendenti, che intendano procedere alla chiusura di una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50, sono tenuti a dare comunicazione per iscritto, anche attraverso l’associazione a cui è iscritto o conferisce mandato, dell’intenzione di procedere alla chiusura alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria nonché alle sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e, contestualmente, alle regioni interessate, al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, al ministero dello Sviluppo economico, all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal). Sono esclusi dal campo di applicazione delle nuove norme i datori di lavoro che si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa di cui al decreto-legge 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla legge 21 ottobre 2021, n.147.
La comunicazione è effettuata almeno novanta giorni prima dell’avvio della procedura di cui all’articolo 4 legge 23 luglio 1991, n. 223 (licenziamenti collettivi) e indica le ragioni economiche, finanziarie, tecniche od organizzative della chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura. I licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di novanta giorni sono nulli. Entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui sopra, il datore di lavoro elabora un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura e lo presenta alle rappresentanze sindacali e contestualmente alle regioni interessate, al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, al ministero dello Sviluppo economico e all’Anpal. Il piano non può avere una durata superiore a dodici mesi e indica:
a) le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi quali il ricorso ad ammortizzatori sociali, la ricollocazione presso altro datore di lavoro e le misure di incentivo all’esodo;
b) le azioni finalizzate alla rioccupazione o all’autoimpiego, quali formazione e riqualificazione professionale anche ricorrendo ai fondi interprofessionali;
c) le prospettive di cessione dell’azienda o di rami d’azienda con finalità di continuazione dell’attività, anche mediante cessione dell’azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite;
d) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato;
e) i tempi e le modalità di attuazione delle azioni previste.
I lavoratori interessati dal piano sottoscritto dalle parti interessate possono beneficiare del trattamento straordinario di integrazione salariale nei limiti degli stanziamenti previsti. L’Inps provvede al monitoraggio del limite di spesa annuali. Qualora dal predetto monitoraggio emerga che è stato raggiunto anche in via prospettica il limite di spesa, l’Inps non prende in considerazione ulteriori domande.
Le azioni di cui alla lettera b) possono essere cofinanziate dalle Regioni nell’ambito delle rispettive misure di politica attiva del lavoro.
Entro trenta giorni dalla sua presentazione, il piano viene discusso con le rappresentanze sindacali di cui al comma 224, alla presenza delle regioni interessate, del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e del ministero dello Sviluppo economico e dell’Anpal. In caso di accordo sindacale, si procede alla sottoscrizione del piano, a seguito del quale il datore di lavoro assume l’impegno di realizzare le azioni in esso contenute nei tempi e con le modalità programmate. In caso dì accordo sindacale di cui al presente comma, qualora il datore di lavoro avvii, al termine del piano, la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, non trova applicazione la previsione di cui all’articolo 2, comma 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (ovvero l’erogazione prevista per ogni licenziamento).
I lavoratori interessati dal piano di cui al comma 228 accedono al programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori Gol; a tal fine i nominativi dei lavoratori coinvolti sono comunicati all’Anpal che li mette a disposizione delle regioni interessate. Prima della conclusione dell’esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, né intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Il datore di lavoro comunica mensilmente ai propri interlocutori lo stato di attuazione del piano, dando evidenza del rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione, nonché dei risultati delle azioni intraprese.
In mancanza di presentazione del piano o qualora il piano non contenga gli elementi contemplati, il datore di lavoro è tenuto a pagare il contributo di cui all’articolo 2, comma 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92 in misura pari al doppio e qualora avvii la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, non trova applicazione la previsione di cui all’articolo 2, comma 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92. La verifica formale in ordine alla sussistenza, nel piano presentato, degli elementi contemplati, è effettuata dalla struttura per la crisi d’impresa di cui all’articolo 1, comma 852, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. In caso di mancata sottoscrizione dell’accordo sindacale, il datore di lavoro è tenuto a pagare il contributo di cui all’articolo 2, comma 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92 aumentato del 50% e qualora avvii la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, non trova applicazione la previsione di cui all’articolo 2, comma 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Il primo periodo si applica anche qualora il datore di lavoro sia inadempiente rispetto agli impegni assunti, ai tempi e alle modalità di attuazione del piano, di cui sia esclusivamente responsabile.
In caso di cessione dell’azienda o di un ramo di essa con continuazione dell’attività e mantenimento degli assetti occupazionali, al trasferimento di beni immobili strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni si applicano l’imposta di registro e le imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di euro 200 ciascuna. In caso di cessazione dell’attività o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente comma prima del decorso del termine di 5 anni dall’acquisto sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria.
Com’è facile intuire questa è una procedura che non si applica solo alle aziende straniere che intendono andarsene, ma diventa una procedura rafforzata in caso di licenziamenti per riduzione di personale. E non sembra “acqua fresca” come sostengono gli avanguardisti della lotta alle multinazionali.
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