Se lo scrive il Washington Post di Jeff Bezos (cioè l’house organ di Amazon) che “Draghi ha messo l’Italia in una forma invidiabile in vista del G20” un po’ di sospetto può nascere in chiunque, perché quando il diavolo ti accarezza vuole l’anima; ma come suol dirsi, a poche ore dalla presentazione della Legge di bilancio per il 2022 “le chiacchiere stanno a zero”, cioè questa legge va bene e teniamoci stretto Draghi.
Detto ciò, se proviamo invece a dare il voto al testo – per quel che rivela e anche per quel che rinvia – è corretto fermarsi a un decoroso 6+. Come dire: sufficiente, ma poteva far di più. Poteva impegnarsi di più.
Proviamo a spiegarci. La legge stanzia 30 miliardi di interventi dei quali 23 in deficit, che non sono pochi. Ma è timida sia sul fronte del taglio delle tasse, al quale dedica 8 miliardi (2 meno di Renzi) rimettendo però le scelte al Parlamento; sia su quello delle pensioni dove si procede alla proroga modificata di Quota 100 come Quota 102 per un anno, per non far arrabbiare Salvini; e per non far arrabbiare Di Maio si rifinanzia il Reddito di cittadinanza senza trasformarlo in quello strumento di politica attiva del lavoro che si attende invano da tempo e introducendo – piccolo progresso – il décalage dell’assegno sin dopo il primo rifiuto di un’offerta di lavoro e il massimo di due rifiuti se non si vuol perdere il beneficio. Un pannicello caldo, perché offerte di lavoro ne sono arrivate ben poche dagli inesistenti navigator di un debolissimo sistema di collocamento.
Ma allora perché 6+? Perché forse nessuno avrebbe “potuto far di più”, e quindi il voto di sufficienza piena va riconosciuto.
Bisogna ricordarsi che Draghi, in gergo calcistico, sarebbe definito un “risultatista”: uno che cioè lavora per fare punti, non per fare spettacolo, non vuol fare un bel gioco a rischio di perdere, è capace di accontentarsi di fare catenaccio e contropiede, ma vuole a tutti i costi portare a casa i tre punti. E di solito di riesce.
E dunque la vera clemenza che il suo operato merita gliela si deve anche e soprattutto per il contesto in cui si trova a operare l’ex governatore della Banca d’Italia che autorizzò il Montepaschi a comprare l’Antonveneta (lo si cita così solo per un dispettuccio, giusto per ricordare che nessuno è perfetto).
Parliamoci chiaro: è vero che questa accolita di parlamentari sa che non rivedrà mai più gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama neanche piangendo in cinese perché sono in buona parte peones di partiti in via d’estinzione e comunque il numero di seggi in lizza si ridurrà drasticamente; ed è vero quindi che la medesima accolita, piuttosto di tagliare anticipatamente la legislatura andando a casa prima del secondo semestre del quinto anno e perdendo così il vitalizio, sarebbe capace di sostenere a palazzo Chigi non solo Draghi ma anche il governo di un cavallo, come Caligola.
Ma a Draghi non basta questa imbarazzante certezza per guardare di buon grado a un 2022 che si profila politicamente avvelenato, a cominciare dalla riffa per il Quirinale, a oggi apertissima, per poi proseguire con una campagna elettorale permanente in vista delle prossime elezioni. Draghi deve portare avanti un’altra e più importante campagna, quella vaccinale – non illudiamoci: non è finita, la terza dose ci vorrà o il Covid risorgerà – e deve soprattutto continuare a coccolarsi l’Europa, perché l’anno prossimo quelli di Bruxelles inizieranno a chiederci conto di come stiamo spendendo i primi 23 miliardi intascati dal Pnrr per darcene (o anche non darcene) altri.
Quindi Draghi non vuole risse nel suo saloon. Vuole lavorare al meglio. E il suo meglio è nemico del meglio assoluto. Quindi pannicelli caldi alla Lega, verdi; pannicelli caldi al Movimento Cinquestelle, incolori; pannicelli caldi al Pd di Letta, insapori. Senza che le due grandi direttrici ideali del suo mandato – la doppia transizione, ecologica e digitale – abbiano ancora dato, a oggi, segnali di concreta partenza, nel Paese; e senza che le grandi riforme – giustizia civile, burocrazia, concorrenza, fisco – sembrino oggi aver superato il livello di embrione-delega ed essere quindi diventate “operative”.
È questo il senso di una Legge di bilancio (una volta si diceva “finanziaria”, ed era più chiaro) che serve a scavallare l’anno politico più difficile di sempre, ammesso e non concesso che le schermaglie in corso non finiscano col proiettare direttamente Supermario al Colle nel prossimo febbraio, un po’ per promuoverlo e un po’ per rimuoverlo, procedendo poi a tentoni verso le politiche ’23 affidandosi ai vari Giorgetti, Giovannini e Gentiloni per non farsi impallinare dalle istituzioni internazionali. Il resto è articolazione tecnica, 100 pagine per 180 articoli, di quelle che nessuno legge fino in fondo e che purtroppo, possiamo starne sicuri, generano tanti di quei decreti attuativi destinati a restare lettere morta che non arrivano quasi mai a cambiare davvero le cose.
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