La nostra sanità appare malata e si stenta a trovare quel farmaco potente che risolva la situazione in modo radicale, definitivo. Dalla Nadef (Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza), che precede la legge di bilancio, arrivano segnali poco rassicuranti. Si legge infatti che senza uno specifico intervento del Governo la spesa per la sanità passerà nei prossimi anni dal 6,7% del Pil del 2022 al 6,6% del 2023 e al 6,2% dal 2024 in poi.



In numeri assoluti si scende dai 134,7 miliardi di quest’anno ai 132,9 del prossimo anno. Numeri che fanno gridare allo scandalo l’opposizione, mentre lasciano al Governo la difficile arte di far quadrare i conti. Intanto sulla stampa si assiste a un rimbalzo di responsabilità per capire chi negli anni ha tagliato di più in sanità, con accuse circostanziate, ma difficilmente verificabili, mentre manca una visione concreta e realistica sia del quantum a disposizione che delle priorità da mettere in programma e da perseguire con determinazione. Il ministro dell’Economia sembra particolarmente attento alle esigenze del personale e mentre afferma che la legge di bilancio “finanzierà anche il rinnovo contrattuale del pubblico impiego, con particolare attenzione al settore sanitario”, propone di detassare a un’aliquota bassa gli straordinari del personale medico.



Tutti chiedono più soldi, a cominciare dal ministro alla Salute, che per l’anno prossimo aveva chiesto 4 miliardi in più, ma probabilmente ne riceverà la metà. Tutte le regioni, comprese quelle governate dal centrodestra, chiedono più risorse per la sanità e Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia e della Conferenza delle regioni e province autonome afferma in modo netto che per abbattere le liste di attesa, vera piaga dell’attuale andamento della sanità, servono medici competenti, all’altezza delle sfide da affrontare. Un ulteriore definanziamento della sanità avrebbe effetti gravi sul piano della prevenzione e della diagnosi precoce: basta pensare agli screening, quasi scomparsi in alcune regioni, ai tempi lunghi per alcuni accertamenti come ecografie, tac e risonanza.



Ma a risentirne sarebbe soprattutto la qualità dell’assistenza, per non parlare della riabilitazione, che ha carenze croniche e si rivela sempre più inadeguata, proprio in rapporto all’età che si allunga e alla cronicizzazione di molte patologie. Alcune regioni stentano anche a garantire i Livelli essenziali di assistenza (LEA) previsti per legge. La premiata coppia Schlein-Conte protesta dal fronte dell’opposizione, dimenticando che i più vistosi tagli alla sanità sono stati fatti sotto i governi della sinistra: dal 2010 al 2019, tutti gli esecutivi, senza distinzione, hanno ridotto i fondi destinati alla sanità.

“Il Servizio Sanitario Nazionale ha perso 37,5 miliardi di euro tra il 2010 e il 2019”, si legge nel report Gimbe. Nel 2020 si è registrato un balzo della spesa sanitaria, arrivata al 7,4% del Pil, per una ragione semplice: il crollo del Pil dell’8,9% per effetto della pandemia. L’aumento in termini percentuali non corrispondeva infatti a una crescita in valori assoluti dello stanziamento economico: quel 7,4% del 2020 era un dato “drogato” dalla caduta del Pil. Se si restringe il campo di osservazione, tra il 2013 e il 2018, quando a Palazzo Chigi si sono alternati tre premier dem, in successione Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, c’è stato un taglio alla sanità pubblica pari a 28,1 miliardi di euro, conseguenti alle manovre finanziarie e allo stanziamento di minori risorse rispetto a quelle programmate, successivamente si sono alternati governi tecnici e gli esecutivi Conte 1 e 2.

Ma non tutte le regioni, non tutti gli ospedali, non tutti i territori sono nelle medesime condizioni, perché il fattore umano conta molto e si traduce in modelli organizzativi più o meno efficaci, almeno sotto il profilo costo-qualità dell’assistenza. La medicina ospedaliera risulta più efficiente in Toscana ed Emilia-Romagna, mentre l’assistenza territoriale è decisamente migliore in Lombardia e in Veneto. Molise, Valle d’Aosta, Abruzzo e Liguria hanno una spesa per gli ospedali che supera la media nazionale; sette regioni su 21 hanno servizi insufficienti in vari settori e il quadro più nero arriva da Valle d’Aosta e Calabria, dove i risultati complessivi si fermano sotto la sufficienza. Il Governo ha promesso di ribaltare con la legge di bilancio le previsioni della Nadef, dalle quali emerge un taglio di 2 miliardi di euro. Ci saranno fondi aggiuntivi per il rinnovo dei contratti per i medici e il potenziamento degli stipendi dei dirigenti del comparto sanità. E ulteriori risorse dovrebbero arrivare grazie al Pnrr, che avrà un ulteriore finanziamento di 15 miliardi.

Tra i suggerimenti recentemente arrivati al Governo ce ne sono due, proposti già da diversi anni dalla Fondazione Gimbe, che finora non hanno però avuto ascolto, mentre potrebbero essere utili nel momento della programmazione e della pianificazione: definire una soglia minima del rapporto spesa sanitaria/Pil e un incremento percentuale del Fondo sanitario nazionale portandolo al doppio dell’inflazione. E c’è un terzo suggerimento essenziale per rilanciare il SSN: ri-motivare il personale sanitario, medici e infermieri in primis, ma non solo loro.

La crisi del sistema non è solo economica, è anche identitaria per professionisti che hanno smarrito il senso e la dignità di un ruolo che da sempre è stato al top nella pubblica opinione e che la stessa pandemia aveva contribuito a rilanciare per la competenza e la generosità con cui si erano distinti. Ma dopo aver attraversato quella che a tutti è apparsa come una vera e propria medicina delle catastrofi, cessata la crisi, il personale sanitario è stato nuovamente relegato nell’angolo, mentre è da loro che occorre ripartire, perché sono loro a supportare il sistema, mentre il sistema non li supporta in nessun modo. Ed è questo l’appello essenziale rivolto al Governo: le risorse economiche sono necessarie ma non sufficienti.

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