Il disegno di legge di bilancio è finalmente approdato al Senato, con il peso dei suoi 219 articoli, molti di più dei 185 della bozza circolata a Ognissanti quale approvata dal Consiglio dei ministri del 28 ottobre. In breve, un ritorno alle “finanziarie fiume” degli anni Ottanta del secolo scorso, contro cui, nella doppia veste di vicepresidente del Consiglio e di ministro del Tesoro si era battuto Giuliano Amato con una riforma che prevedeva una legge di bilancio breve, di tre soli articoli per fissare i saldi, e una serie di “collegati” ordinamentali che, pur partendo con il ddl avrebbero potuto avere velocità, e tempi di approdo, differenti. 



È in parte la conseguenza di una maggioranza tanto vasta e con forze politiche divergenti che vogliono fissare bandierine qua e là in vista di elezioni che potrebbero arrivare prima della fine naturale della legislatura. È anche il frutto della litigiosità all’interno della maggioranza che rallenta i lavori parlamentari e dà alle forze politiche la sensazione che il ddl sia “l’ultimo treno”: o si riesce a inserire il provvedimento voluto in uno dei 219 vagoni o non ci sarà un’altra opportunità. Inoltre, dato che si è in ritardo sui tempi, una lettura attenta verrà fatta solo al Senato. Alla Camera non resterà che approvare quanto deliberato a Palazzo Madama, incluso l’inevitabile maxi-emendamento governativo.



Per esaminarne la valenza economica, il ddl va letto congiuntamente con il programma 2022 del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Una lettura congiunta dei due documenti mostra che il Governo, pur nelle sue diversità e nei suoi contrasti interni, è riuscito a superare quella che è stata una debolezza dei ddl di bilancio dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso: una corsa della spesa di parte corrente e una compressione di quella per investimenti pubblici. Occorre, però, chiedersi se le pubbliche amministrazioni che si sta cercando di rafforzare con risorse del Pnrr saranno in grado di svolgere i complessi compiti tecnici necessari per fare sì che gli investimenti progettati diventino realtà. 



Sono state create strutture di monitoraggio e di valutazione in itinere, oltre che nelle amministrazioni di spesa, in presidenza del Consiglio e al ministero dell’Economia e delle Finanze-Ragioneria Generale dello Stato. Il pensiero di un centinaio di stazioni appaltanti fa, però, tremare i polsi, anche alla luce della riduzione di personale tecnico (in gran misura sostituito da amministrativi con formazione giuridica) avvenuta nell’ultimo quarto di secolo.

Inoltre, occorre chiedersi se il ddl fornisce una spinta adeguata a quella che è la principale risorsa dell’Italia, priva di risorse naturali: il proprio capitale umano. Due corposi capitoli dell’articolato sono dedicati all’istruzione (dagli asili nido alle università) e alla sanità (dal personale alle unità di continuità assistenziali). Esaminando gli stati di previsioni e le tabelle del ddl viene il dubbio che né in materia di istruzione, né in materia di sanità le risorse stanziate siano in linea con le esigenze di un capitale umano di qualità che sostenga la crescita economica di medio e lungo periodo. 

È un dubbio non una certezza. Sta alle forze politiche, più che al Governo, chiarirlo. Sarebbe bene farlo nelle fasi iniziali dell’esame del ddl, anche in quanto sull’aumento delle risorse per istruzione e sanità si può trovare un accordo nella vasta, variegata e variopinta maggioranza.

Aumentare risorse per istruzione e sanità vuol dire toglierle da altri comparti. Il candidato (anche se difeso ora pure dal Partito democratico oltre che dal Movimento 5 Stelle) è il Reddito di cittadinanza, travolto da scandali che non riguardano solo la camorra dei comuni vesuviani o la ‘ndrangheta calabra, ma anche la mafia internazionale romena. Lo strumento mal concepito e peggio attuato è trattato in tre articoli (20-22) del ddl intitolati “riordino”. Ma propongono pillole di aspirina e di redberry quando sarebbe essenziale il bisturi senza il quale l’ammalato rischia di diventare cadavere. Il comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza istituito presso il ministero del Lavoro ha prodotto un documento con dieci raccomandazioni colme di buon senso. Non tengono conto, però, del difetto di fondo: averlo affidato all’Inps e avere previsto, come suggerito dall’attuale Presidente dell’Inps, di erogare sulla base di autodichiarazioni.

Le lezioni di lotta alla povertà di Banca Mondiale, FAO-IFAD dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e di quello che fu l’Alto Comitato sull’Inclusione Sociale dell’Unione europea sono chiare: i veri poveri si identificano unicamente a livello locale e solamente a livello locale si possono individuare misure “su misura” per farli uscire dalla trappola. Sarebbe appropriato finanziare il Rdc solo per sei mesi con la clausola che entro quattro mesi il Governo proponga una vera riforma dello strumento da utilizzare per chi è veramente in stato di bisogno quale identificato dai servizi sociali dei Comuni e richiedendo a tutti i beneficiari abili di dare almeno 30 ore la settimana (quando non si è in formazione) a lavori di utilità sociale. Diminuirebbero immediatamente le domande.

Altro capitolo sul quale le forze della maggioranza hanno opinioni divergenti riguarda le pensioni. Domani 15 novembre i sindacati presenteranno proposte al presidente del Consiglio. È doveroso attendere per chiosarle.

Infine, gli sgravi tributari. Sono a disposizione 8 miliardi. Sta al Parlamento destinarli. Nelle prossime settimane, ne vedremo di cotte e di crude. 

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