Se il buon giorno si vede dal mattino, per la riforma elettorale non siamo messi bene. Come dimostrano le difficoltà incontrate nei lavori della commissione Affari costituzionali della Camera. Stenta a decollare, infatti, l’accordo da tempo raggiunto all’interno della maggioranza per un sistema interamente proporzionale con un’alta soglia di sbarramento (5%, seppure con qualche flessibilità) e senza le preferenze.
Giovedì scorso, dopo un lungo periodo di stasi, è stato compiuto il primo passo di un percorso che si preannuncia accidentato. Il testo-base è stato adottato con il solo voto favorevole del Pd e del M5s, mentre le opposizioni del centro-destra si sono rifiutate di partecipare alla votazione, e le altre componenti della maggioranza o si sono astenute (LeU) o non hanno partecipato (Iv).
Del resto, questo progetto di riforma elettorale si muove sul filo del rasoio, esponendosi a critiche su entrambi i versanti. Per chi continua a sostenere la tesi del Parlamento stile Westminster sulla scia della “Seconda Repubblica”, gli elettori si troverebbero in condizioni peggiori di quelle presenti nella “Prima Repubblica”.
Non solo la cancellazione di ogni meccanismo maggioritario, infatti, precluderebbe agli elettori il potere sostanziale di indicare il Governo del Paese, in quanto questa scelta sarebbe rimessa agli accordi post-elettorali tra i partiti. Ma, per di più, l’assenza del voto di preferenza ridurrebbe l’elezione alla sola ratifica dei candidati selezionati dai partiti. Si rafforzerebbe la partitocrazia e l’elettore sarebbe privato di ogni “scettro”.
Invece, per chi si muove nella scia del ritorno al passato, quando piccoli pacchetti di seggi tenevano in scacco maggioranze e governi, è necessario impedire ogni tentazione neo-maggioritaria. Per questo si chiede l’abbassamento delle soglie e l’introduzione di ulteriori correttivi nel senso del frazionamento della rappresentanza parlamentare. Così riducendo al massimo possibile le rendite di posizione risultanti dall’attuale quadro partitico, di cui si auspica il progressivo sfaldamento e la successiva ricomposizione in una prospettiva atomizzante. Quasi una catarsi, se non una un’anabasi verso una “primissima Repubblica”.
Non è certo un buon viatico per gli appelli alle opposizioni. Del resto, a queste ultime non si può chiedere la convergenza sulle riforme elettorali o addirittura costituzionali, senza offrire un ragionamento assai diverso, complessivo – ovvero collegato anche all’assetto istituzionale prossimo venturo – e soprattutto inclusivo. Tutto il contrario di quanto si è via via determinato in questa fase ancora emergenziale, ove stanno dominando l’autoreferenzialità dei processi decisionali e la contingente strumentalità delle posizioni assunte a ogni livello.
In altre parole, in assenza di fatti nuovi – esterni o interni -, le fratture sinora prodottesi non potranno ricomporsi facilmente in questa legislatura. A ben vedere, la tensione al distanziamento, tanto proclamato a fini di difesa individuale e sociale, ha fortemente contagiato il sistema politico-istituzionale, favorendo una sorta di frazionamento introverso ed estroverso. Sino al punto che, per le indicazioni di voto circa il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, nei partiti – fatta eccezione il M5s – si manifestano contorsioni eclatanti e mai viste in passato. Nessuno scandalo, ovviamente, ma sintomi evidenti di debolezze e fragilità sempre più irrisolte e di cui, prima o poi, si risponderà innanzi all’opinione pubblica.
Tutto ciò è anche un cattivo segnale per chi ipotizza che la vittoria del Sì nell’imminente referendum costituzionale darebbe il via a un più corposo e – finalmente – coerente processo di riforma delle nostre istituzioni? E’ possibile e anzi sarebbe auspicabile che ciò accadesse, ma taluno, nello stesso campo del Sì, già proclama a chiare lettere la tesi opposta, e cioè che il noto slogan “la Costituzione non si tocca” dovrà tornare a valere subito dopo il perfezionamento di questa riforma costituzionale.
In ogni caso, a differenza di chi considera l’imminente referendum come praticamente ininfluente, riteniamo che, qualunque sarà l’esito, nulla sarà più come prima. Se vincerà il Sì, si rafforzeranno le istanze di chi vorrà mutare ulteriormente l’assetto dei poteri pubblici secondo logiche e prospettive che, però, allo stato non risultano concordanti e che dunque si faticherà non poco a comporre secondo omogeneità e unitarietà. Nel contempo, sarà facile brandire l’arma della delegittimazione dell’attuale Parlamento, così come si accresceranno le fibrillazioni all’interno della numerosa pattuglia dei parlamentari – di ogni schieramento – sempre più dubbiosi sulla possibilità di essere rieletti.
Se vincerà il No, il contraccolpo sarà inevitabile, con le forti critiche che saranno rivolte – anche dall’interno dei partiti – a chi ha voluto o comunque sostenuto la riforma costituzionale, sino al punto che potrebbe essere a rischio la stessa stabilità dell’attuale coalizione di maggioranza.
Insomma, il referendum costituzionale confermerà la profezia lanciata subito all’apparire del Covid-19. Le nostre istituzioni, e con essa i partiti e le classi dirigenti di questo Paese, saranno messe ancor più alla prova. Si scivolerà pericolosamente sul ghiaccio, e occorreranno protezioni abbondanti e pattini affilati. Ne uscirà meglio chi saprà rispondere alla prova della responsabilità di fronte al Paese tutto.