Come le foglie cadono in autunno, anche questa legislatura è tormentata dalla riforma elettorale. Un problema incomprensibile per il comune cittadino, già frastornato da tante preoccupazioni. Eppure le forze politiche sono in fibrillazione, e il destino della stessa maggioranza potrebbe risentirne.

Le ragioni sono presto dette. Il sistema elettorale è la formula che trasforma i voti in seggi, e a ogni formula corrisponde un risultato diverso. I costituenti, eletti con il sistema proporzionale stabilito nel 1946, hanno volutamente omesso di occuparsene. E la legge proporzionale, ribadita nel 1948 e superata nel 1953 la prova del premio di maggioranza richiesto da De Gasperi, è durata per quarant’anni. Allora è chiaro cosa accadde agli inizi degli anni Novanta: per scardinare la cosiddetta prima repubblica era indispensabile il mutamento della formula elettorale, a partire dalla “preferenza unica” perseguita con il referendum Segni-Guzzetta. Ed è altrettanto chiaro perché la cosiddetta seconda repubblica non si è poi stabilizzata: la convenzione del 1993 sulla formula elettorale prevalentemente maggioritaria, il famoso Mattarellum, non è rimasta ferma. Dal 2005 è stata ripetutamente sovvertita con accordi più o meno allargati alle opposizioni. Con un rischio ulteriore di instabilità, quello che l’accordo sulla legge elettorale possa essere successivamente ribaltato o corretto dalla Corte costituzionale, dato che quest’ultima dal 2014 ha assunto il compito di intervenire in presenza di vizi “evidenti” di incostituzionalità.



In definitiva, i partiti presenti in Parlamento possono disporre delle loro stesse sorti e di quelle dei nuovi entranti nell’arena politica. Così, la variazione della formula elettorale è uno strumento utile – se non indispensabile – per precostituire le condizioni del rispettivo successo, e per indirizzare l’evoluzione dell’indirizzo di governo. Anche se l’esperienza insegna che il ricorso a una logica meramente utilitaristica non sempre ha comportato sostanziali vantaggi per chi immaginava di approfittarne.



Stavolta, però, la posta è molto più alta. Non si tratta soltanto di riscrivere le regole del gioco per l’immediato futuro, ma di predisporre il disegno di base delle nostre istituzioni in un tornante decisivo per l’Italia. Con l’emergenza sanitaria tutto è stato rimesso in discussione: dal rispetto della Costituzione ai vincoli di appartenenza nello scacchiere internazionale; dai rapporti tra poteri centrali e autorità territoriali, ai meccanismi dell’integrazione europea; dai processi di globalizzazione sempre più aperti e liquidi, all’instaurazione di nuovi blocchi economico-sociali interni ed esterni al Paese.



È alle porte, poi, il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, e dunque il tema della legge elettorale diventa ancor più scottante. L’ingorgo, ormai deciso, tra referendum ed elezioni amministrative indurrà l’elettorato a chiedersi perché alcune forze politiche si trovano dalla stessa parte nella competizione referendaria, e su versanti opposti nelle competizioni regionali e locali, così come nel Parlamento. E i dubbi si accresceranno considerando gli sfaldamenti in corso nei gruppi parlamentari e le corrosioni tra i vertici e gli apparati locali dei partiti. Per questo sono inevitabili le convulsioni del momento, anche nell’individuare gli elementi essenziali di una possibile riforma elettorale: con chi accordarsi, su quale meccanismo, con quali prospettive.

Se si giungerà a una nuova legge elettorale, chi riuscirà a imporre la propria visione della rappresentanza politica avrà a sua disposizione un jolly decisivo. Ma non basterà certo una carta per vincere la partita. La democrazia, è stato detto, è un plebiscito di ogni giorno. E chi intende usarla per i propri esclusivi interessi, prima o poi viene sconfitto dalla storia.

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