Valorizzare la presenza dei lombardi all’estero, ma soprattutto creare le condizioni perché chi emigra temporaneamente dalla Lombardia per ragioni di studio o di lavoro, o per ampliare la propria esperienza professionale, possa poi tornare. Chiamatelo «soft power» lombardo. Su questi temi Regione Lombardia punta ad approvare una legge specifica prima dell’estate. L’iter in consiglio regionale è già iniziato. La normativa attuale in materia di lombardi nel mondo risale al 1985 e oggi appare un po’ datata. Da qui l’urgenza di predisporre «strumenti adeguati alle nuove sfide della mobilità internazionale», come spiega il sottosegretario regionale con delega alle relazioni internazionali ed europee Raffaele Cattaneo che ha promosso la nuova legge.



Come mai oggi è necessario mettere mano a una nuova legge sui lombardi nel mondo?

Forse non c’è piena contezza del fenomeno dei lombardi nel mondo. Oggi ha assunto dimensioni talmente rilevanti che non possiamo ignorarlo. Serve quindi una legge che risponda ai nuovi modelli di mobilità internazionale che non sono certo quelli di cinquant’anni fa.



In numeri di cosa stiamo parlando?

Oggi, fonte Istat, risultano 611mila i lombardi iscritti all’Aire, l’anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero, ma questi potrebbero essere solo la metà o un terzo di quanti effettivamente vivono, studiano o lavorano fuori dai confini nazionali. C’è una ricerca della Fondazione Nord Est che ha incrociato i dati Istat con quelli degli uffici statistici dei Paesi europei di destinazione, e poi ha utilizzato i social media per vedere gli account e i profili Facebook attribuiti agli italiani negli altri Paesi. Se uno infatti ha un profilo Facebook attivo all’estero, questo è indice molto probabile di una presenza stabile in un altro Paese. Ebbene vien fuori che il numero di immigrati italiani presenti nei Paesi di destinazione è mediamente superiore di tre volte a quanto risulta all’Istat. Di conseguenza, anche per quanto riguarda la nostra regione, le cifre diventano molto più rilevanti, con un flusso verso l’estero stimato nel decennio 2011-2021 di quasi 1,3 milioni di lombardi. Questi dati sono abbastanza solidi per dire che siamo di fronte a un fenomeno sottostimato.



È un fenomeno nuovo o esistono precedenti?

Sul piano quantitativo bisogna risalire agli anni ’50 per ritrovare un valore analogo. Allora eravamo nel pieno di un’emigrazione fatta da persone che qui non trovavano prospettive e andavano all’estero per costruirsi un futuro. Si espatriava in modo definitivo e verso mete predeterminate, oltre che geograficamente lontane. Oggi le emigrazioni invece riguardano in maggior parte il continente europeo (la Svizzera e il Regno Unito sono i primi due Paesi di destinazione), hanno caratteristiche molto più circolari e mutevoli nel tempo. Si va ma poi, se ci sono le condizioni, si torna. Inoltre. chi emigra è molto più giovane e più qualificato.

L’aspetto del ritorno però è forse quello un po’ più critico…

Indica il lavoro che dobbiamo fare per favorire il rientro di chi è andato all’estero. Non è una sfida impossibile. Nel 2022 la Lombardia è stata la prima regione per partenze con circa 15.500 unità, però è stata anche la prima per rientri con 14 mila ritorni. Questo significa, come ho già detto, che c’è un’emigrazione circolare, di gente che va e di gente che torna. È interessante anche questo dato: nel 2021 oltre il 40% di quelli che sono partiti è tra i 18 e i 34 anni, quindi si tratta di persone giovani che cercano sbocchi, nel 2022 siamo attorno al 43%, e di questi circa la metà sono laureati. È evidente che non siamo più di fronte a persone senza arte né parte che lasciano il proprio Paese per andare a cercar fortuna, ma di giovani ad alto potenziale che vanno via. Se non creiamo le condizioni perché possano tornare, avremmo una perdita significativa per il nostro Paese anche in termini di Prodotto interno lordo potenziale e di forza trainante per lo sviluppo.

Sono giovani che si formano nelle nostre università e che poi lasciano il Paese…

I dati Istat dicono che i giovani fra i 18 e i 34 anni che hanno lasciato l’Italia sarebbero 450.000, ma se consideriamo le ricerche che citavo prima, che cumulano anche gli account social, si sale a quota un milione duecentomila. Sono numeri veramente significativi che, se vengono sommati a quelli molto preoccupanti della denatalità, rischiano di portare a un impoverimento del Paese. È un brain drain di dimensioni mai viste, più alto che in altri Paesi europei.

Secondo lei non c’è un problema più generale di scarsa attrattività del nostro Paese?

Senz’altro. Secondo l’Istat per uno straniero che viene nel nostro Paese ci sono 8 italiani che vanno all’estero, e secondo Eurostat sarebbero addirittura 17. Non siamo in una condizione di equilibrio. Se andiamo a vedere quanti sono i giovani di altri Paesi europei che migrano i numeri sono molto più bassi di quelli che abbiamo in Italia.

A cosa si può attribuire anzitutto questa scarsa capacità attrattiva?

C’è un dato che mi hai colpito più di tutti: secondo un’indagine che ho potuto vedere, lo stipendio iniziale di questi giovani che emigrano all’estero è mediamente del 42% più alto di quello che avrebbero in Italia. E questo è un dato che ho avuto modo di riscontrare personalmente in tante esperienze che ho incrociato di giovani che sono andati all’estero semplicemente perché guadagnano di più. Questo è sicuramente vero per la vicina Svizzera, ma lo è anche per tanti altri Paesi europei. Non a caso noi in Lombardia soffriamo moltissimo questa fuga di cervelli.

Secondo i dati illustrati alla commissione regionale, la Svizzera è il primo Paese di destinazione dei lombardi. Possiamo dire che ha gioco facile?

Dai medici agli infermieri, dai professionisti ai tecnici, in Svizzera mediamente gli stipendi sono tra il doppio e il triplo di quelli che abbiamo in Italia. È ovvio che questo è un punto di attrazione che spiega gli oltre 70mila frontalieri che ci sono ogni giorno, ma giustifica anche quelli che ci vanno e ci restano. Però non c’è solo la Svizzera, è significativo che il secondo Paese di destinazione dei nostri giovani sia il Regno Unito che non è certo uno stato confinante.

La nuova legge in arrivo può contribuire senz’altro ad accendere i riflettori su questo fenomeno, ma al di là di questo, quali sono gli obiettivi che vi siete proposti?

Il primo, come ho detto, è adeguare una norma del passato al nuovo scenario che è completamente diverso da quello di quarant’anni fa quando avevamo un’emigrazione molto più limitata nei numeri e molto diversa nella composizione. C’è un fenomeno nuovo che ha bisogno di una risposta politico-istituzionale all’altezza. In secondo luogo, vogliamo favorire la mobilità internazionale, che è qualcosa di diverso dall’emigrazione che in genere ha un biglietto di sola andata. La mobilità prevede più biglietti di andata e ritorno, presuppone la possibilità di instaurare un percorso circolare: vai in uno o più Paesi, ma poi ci sono le condizioni perché tu possa tornare. È un arricchimento, perché non abbiamo bisogno di giovani provinciali rinchiusi nel confine del paesello natio o anche della nostra regione, ma di persone che possano respirare e crescere facendo esperienza nel mondo. Dobbiamo però essere così bravi da offrire loro la possibilità di tornare a condizioni competitive. Questo purtroppo oggi in molti casi non accade e la nostra legge vuole offrire strumenti per poterlo fare.

A che tipo di strumenti avete pensato?

La legge definisce le tipologie degli strumenti. Per esempio, strumenti per l’accompagnamento professionale e l’inserimento nel mercato del lavoro. Quindi borse di studio, soggiorni culturali, percorsi di formazione professionale, ecc. Definire in dettaglio questi strumenti sarà compito della Giunta anche, secondo un approccio sussidiario, in dialogo con le nuove aggregazioni di comunità di lombardi nel mondo che non sono quelle tradizionali che abbiamo da 50 anni o anche più. Mi riferisco ad aggregazioni spontanee di studenti all’estero o di giovani professionisti, facendoci anche un po’ dire da loro quali siano gli strumenti di cui sentono il bisogno.

C’è insomma la necessità di aprire una finestra su una realtà nuova…

Sarà istituita anche una consulta dei lombardi nel mondo e dedicheremo una giornata… ma sono tutti strumenti per rendere visibile un tema oggi molto sottotraccia ma reale, crescente e preoccupante. Se i laureati che espatriano dieci anni fa erano meno del 30% e oggi sono più del 45% bisogna interrogarsi.

Lei ha definito questa legge un’espressione del soft power lombardo. Come sottosegretario delegato alle relazioni internazionali ed europee di Regione Lombardia su quali altri fronti sta lavorando?

Sto lavorando sul complesso degli strumenti che abbiamo a disposizione per aumentare l’attrattività della Lombardia ma anche la sua presenza internazionale. L’intervento sui lombardi nel mondo è uno di questi ma non è l’unico. Stiamo rilanciando, per esempio, le iniziative di cooperazione allo sviluppo, di cooperazione decentrata. In passato la Lombardia ha fatto molto in questo ambito soprattutto nei Paesi dove non c’erano ancora le condizioni per pensare a forme di presenza di natura più economica e imprenditoriale. È stato utile per avviare relazioni con Paesi che nel frattempo sono cresciuti diventando nostri partner. Oggi questa cooperazione va rilanciata in particolare verso l’Africa che oggi ha ancora bisogno di strumenti di cooperazione allo sviluppo che diano contenuto a queste partnership. Una grande opportunità è rappresentata dal bando che l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo ha pubblicato proprio in questi giorni destinato parte alle organizzazioni della società civile, per cui ci sono 120 milioni di euro, parte agli enti territoriali per cui ci sono 60 milioni per progetti.

Sono fondi a cui la Lombardia punta ad attingere?

La nostra regione rappresenta il 16-17% della popolazione italiana e più del 20% del Pil può ambire almeno a 10 milioni di finanziamento. Per l’85% questo bando è destinato all’Africa, soprattutto con iniziative di formazione professionale utilizzando la collaborazione della rete delle ong ma anche esperienze come quelle della fondazione E4Impact che fa progetti di formazione nei Paesi africani. È un esempio di come la Lombardia può contribuire a favorire uno sviluppo locale che poi crea le condizioni più favorevoli anche per partnership di natura economica. La cooperazione serve anche per dare contenuto al diritto a non emigrare che si sostanzia nel creare occasioni di sviluppo sul territorio di quei Paesi.

C’è anche quella che potremmo definire «diplomazia regionale»…

Una Regione importante come la Lombardia ha una propria dimensione di relazioni internazionali che sono la condizione per costruire rapporti favorevoli in altri ambiti di collaborazione. Per esempio, siamo da poco tornati dall’Albania dove col presidente Fontana abbiamo avuto incontri con il Primo ministro e con il Governo. Sono contatti che aprono le porte a iniziative che devono poi coinvolgere imprese, associazioni di categoria, ma anche università, centri di trasferimento tecnologico e di innovazione. Si aprono così nuovi fronti di collaborazione in campo sanitario, nella formazione, in ambito culturale e così via. La Lombardia è molto ricercata nel mondo. Val la pena ricordare che Milano, insieme a New York, è la città al mondo con il maggior numero di rappresentanze consolari: sono circa 120 di cui tre quarti consolati generali. Vuol dire che è ritenuta un territorio interessante. È un valore che cerchiamo di utilizzare nel modo migliore.

La Lombardia in passato è stata la prima Regione a lanciare questa «offensiva» internazionale…

Era stata una delle storiche battaglie di Formigoni in tempi in cui persino per andare a Lugano bisognava chiedere permesso al ministero degli Esteri. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma questo è avvenuto anche per una ragione strutturale: i problemi più importanti che dobbiamo affrontare oggi, dai cambiamenti climatici all’immigrazione, dalla lotta al terrorismo ai modelli di sviluppo globale, non si risolvono in una dimensione nazionale, hanno bisogno di una scala globale. Poi però questi problemi prendono forma concreta a un livello regionale e locale. Occorre quindi fare politiche sui territori e la collaborazione fra questi diventa sempre più importante per affrontare efficacemente le questioni che abbiamo di fronte. In mezzo fra la dimensione globale e regionale quella nazionale oggettivamente sta perdendo valore rispetto al peso che aveva solo cinquant’anni fa.

C’è davvero spazio per un nuovo protagonismo internazionale lombardo?

Se la Lombardia fosse uno Stato nazionale sarebbe nella prima metà dei Paesi europei sia per popolazione che per Prodotto interno lordo. L’Europa a 27 è fatta anche da tanti Stati regionali (penso alle repubbliche baltiche o agli stati della ex Jugoslavia), e da Paesi, non è solo il caso dell’Italia, che hanno al loro interno Regioni forti, come la Baviera e il Baden Württemberg per la Germania, o l’Île de France e il Rhône Alpes per la Francia. Queste devono avere un ruolo, altrimenti c’è il rischio di innescare tensioni. Abbiamo visto cosa è successo in Catalogna o nelle Fiandre. Se non si dà una risposta politica il rischio che queste tensioni sfocino in strappi è reale. Quindi occorre che si trovi una strada dentro un percorso istituzionale corretto che non rompa l’unità dei Paesi e, al tempo stesso, consenta ai territori più avanzati di svolgere un ruolo di traino. In fondo anche l’autonomia differenziata va in questa direzione.

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