Fa piacere imbattersi nell’articolo di David J. Buller sul numero di febbraio di Le Scienze. Questo mese, il noto mensile di divulgazione scientifica è interamente dedicato a Charles Darwin e all’“evoluzione dell’evoluzione”. Con oggi infatti iniziano ufficialmente in tutto il mondo le celebrazioni per le ricorrenze della sua nascita (12 febbraio 1809) e dei centocinquant’anni dalla pubblicazione della sua opera più celebre: L’origine delle specie. L’articolo che ci interessa è una critica serrata e ben argomentata alla cosiddetta POP EP, cioè la Popular Evolutionary Psychology. Ripercorreremo brevemente, secondo uno schema “tomista”, gli argomenti mossi dai sostenitori di questa disciplina e le contro-argomentazioni dell’autore.

Ma andiamo per ordine: che cos’è la POP EP? Nel 1975, il grande entomologo E.O. Wilson pubblicava Sociobiology, un importante contributo allo studio della socialità nel mondo animale. I principi cardine erano i seguenti: la socialità animale è il risultato del processo evolutivo e lo scopo ultimo anche dei comportamenti sociali è fondamentalmente la trasmissione egoistica dei geni dei singoli individui cooperanti. Ogni evento cooperativo, anche quelli che potrebbero essere “antropomorficamente” caratterizzati come del tutto disinteressati, hanno in realtà una ricaduta diretta sull’aumento della fitness (riproduzione differenziale) o dell’individuo cooperante o di suoi parenti (con geni in comune: selezione per parentela). Per le socialità animali – anche le più evolute – la forte regolazione genica rappresenta ancora oggi una buona spiegazione interpretativa. I problemi nascono però quando si vogliono estendere i principi sociobiologici alla specie Homo sapiens, operazione eseguita nell’ultimo capitolo di Sociobiology e in un successivo libro del medesimo autore interamente dedicato alla nostra specie. La sociobiologia oggi ha un altro nome: si chiama psicologia evoluzionistica e mantiene gli assunti di Wilson aggiornandoli con le tematiche tipiche del vasto campo delle neuroscienze moderne. In particolare, alcune versioni più “dure” della neurofilosofia – che studiano la mente umana con un approccio riduttivista – tentano di ridurre tutto ciò che è definibile come mentale al corrispondente substrato neuronale e quindi si inseriscono di fatto nella stessa corrente riduzionistica genocentrica della prima sociobiologia.

Fatta questa premessa, passiamo ad elencare brevemente i “quattro pilastri” della POP EP, con le rispettive critiche.

1) Gli adattamenti psicologici umani sono evoluti per rispondere alle esigenze primarie degli uomini del Pleistocene: scegliere partner ad elevato valore riproduttivo e farsi scegliere da potenziali partner. Secondo Buller però, le ricostruzioni sulla socialità dell’uomo ancestrale e sulla sua psicologia «sono pure congetture»: gli indizi a riguardo sono scarsissimi e non tali da permetterci alcuna ricostruzione anche vagamente comparabile con la nostra situazione attuale.

2) È possibile ricostruire, all’interno di un clade (gruppo di specie che condivide un antenato comune) quei tratti comuni ad alcune specie ma non ad altre, tramite lo studio delle pressioni ambientali a cui le specie sono state sottoposte. Questo procedimento permette di studiare anche l’evoluzione dei tratti psicologici di Homo sapiens, comparandoli con tratti omologhi di specie non umane che condividono con noi un antenato comune. Ma i nostri “parenti più prossimi” non estinti, cioè scimpanzé e bonobo, non condividono con noi quei tratti complessi che la psicologia evoluzionistica vorrebbe spiegare. Il metodo comparativo intraspecifico può fornire buoni risultati per studiare adattamenti caratteristici di alcune popolazioni umane, e forse anche per alcuni adattamenti psicologici specifici, ma risulta inefficiente per identificare in termini evolutivi i presunti “universali umani comuni”.

3) La natura umana è stata forgiata nel Pleistocene in una società di cacciatori-raccoglitori; in altre parole, «il cranio dell’uomo moderno ospita una mente primitiva». Affermare ciò è errato perché alcuni sistemi emotivi condivisi coi nostri parenti primati hanno radici evolutive ancestrali addirittura precedenti al Pleistocene. Inoltre, viene sottovalutata l’importanza del fattore ambientale, che per il caso umano è fondamentale: ogni epoca e ogni circostanza ambientale (cioè, nel nostro caso, sociale) «produrranno tratti psicologici significativamente diversi rispetto a quelli dei nostri antenati vissuti in quell’era».

4) I test psicologici effettuati su volontari umani odierni sono prove a favore della POP EP: questi comportamenti si ripresenterebbero quindi come invarianti ereditati dal nostro passato ancestrale.Ma le prove fornite dai test psicologici attuati risultano essere «a dir poco ambigue», e quelle maggiormente usate dagli psicologi evoluzionisti sono «congetture spacciate per risultati». Mancano inoltre del tutto ipotesi alternative per interpretare i test.

La critica al quarto assunto ci permette di introdurre alcuni concetti evolutivi efficaci per contrastare le pretese sociobiologiche. Uno dei dibattiti più appassionanti che ha attraversato lo sviluppo del pensiero evolutivo nel secolo scorso riguarda la cosiddetta “critica al programma adattazionista”, mossa da due dei maggiori esperti di evoluzione della nostra epoca: Richard Lewontin e il defunto Stephen Jay Gould. Nel famoso articolo dei “Pennacchi di San Marco” del 1979, i due criticavano la tendenza, molto diffusa in campo evoluzionistico, a fornire facili e immediate spiegazioni evolutive adattative per ogni organo (o funzione) animale: affermare che un organo esiste ed è tale perché perfettamente adattato a svolgere la sua funzione non tiene conto però di altri vincoli (morfologici, strutturali, legati ai materiali costituenti) che possono avere influito sull’evoluzione dell’organo stesso. Un approccio di tipo esclusivamente adattazionista portava gli scienziati a formulare le cosiddette “storie proprio così”: spiegazioni cioè che vedevano un’azione evolutiva ottimizzante su ogni tratto caratteristico dei viventi, come risultato di una precedente selezione genica favorevole e ottimizzante per quella determinata funzione. Uno degli esempi riportati dagli autori riguardava proprio un caso di “sociobiologia umana”: utilizzando uno studio antropologico che interpretava il fenomeno del cannibalismo nella cultura Azteca come una soluzione adattativa alla scarsa reperibilità di carne di cacciagione, Wilson ne faceva un’argomentazione tipo a favore del suo approccio: il cannibalismo sarebbe nell’uomo una «predisposizione adattativa di natura genetica». Veniva così trascurato completamente l’importanza dei fattori socio-culturali legati a questo complesso rituale, la cui vera causa sarebbe soltanto il “disperato bisogno di proteine”.

Un approccio non esclusivamente adattazionista ha invece permesso l’introduzione nella cornice teorica neodarwiniana di concetti importanti come quello di exaptation, e soprattutto ha insegnato ai biologi che le spiegazioni troppo semplicistiche non si adattano mai bene alla complessità dei meccanismi evolutivi e della biodiversità, e alla complessità della specie umana. Riteniamo quindi che la POP EP (figlia della sociobiologia) fallisca nel tentativo di fornire spiegazioni esaustive di tipo genetico-adattativo per l’uomo e i suoi aspetti psicologici e mentali, poiché li cerca solo nella storia dei nostri antenati pleistocenici, le cui condizioni di vita non sono minimamente paragonabili con le nostre. Ma tale fallimento non significa che sia del tutto impossibile stabilire alcune specifiche costanti umane universali: la tendenza ad assumere un senso etico condiviso; il trend quasi universale a stabilire legami di coppia tendenzialmente stabili; la tendenza a sviluppare un senso religioso, includendo in questa categoria tutte le posizioni che rappresentano una risposta alla domanda di senso ultimo, che solo l’uomo è in grado di porsi. E lo studio dei neuroni specchio ci indica che tendiamo ad essere per natura altamente relazionali e potenzialmente empatici, a un livello di complessità senza eguali nel resto del mondo animale.

Non bisogna però dimenticare che ogni uomo è “unicamente unico”. Pensiamo cioè che sia molto più ragionevole studiare gli esseri umani integrando, come ha osservato Dupré, almeno tre diversi fattori: «gli universali biologici; le differenze culturali; le differenze individuali». Riteniamo che un approccio del genere sia oggi il tributo migliore che possiamo rendere al “grande festeggiato” di questo 2009.