Non sarà mai cancellata la ferita inferta a tutta l’umanità dalle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, avvenute 65 anni fa, proprio in questi giorni (6 e 9 agosto). Così come non sarà mai inutile riflettere sui diversi risvolti di quella vicenda, che ha visto intrecciati aspetti politici, morali, culturali, insieme a quelli più strettamente scientifici.

Quella storia continua a interrogare tutti e interpella certamente chi si occupa di scienza e forse più di altri è nelle condizioni di rendersi conto delle enormi potenzialità ma anche dei limiti e delle insidie che gli strumenti frutto dell’ingegno umano rappresentano. Come osservava Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis, l’uomo contemporaneo “teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso”.

Un modo per ritornare su quella storia è di far parlare i protagonisti e, in campo scientifico, i principali protagonisti sono stati gli scienziati radunati dal progetto Manhattan e attivi nei laboratori di Los Alamos dalla primavera del 1943 all’agosto 1945. Alcuni di loro hanno raccontato ampiamente, in libri e interviste, il tormento di quegli anni; sono stati più spesso le “colombe” che hanno criticato le scelte operate allora.

Ma c’erano anche i “falchi”; ed è interessante rileggere la storia di colui che è noto come simbolo dell’ala più aggressiva, tanto da meritarsi l’appellativo di mister bomb: Edward Teller. Nel celebre film di Stalney Kubrick Il dottor Stranamore (1964), tra i personaggi che hanno ispirato il regista nel tratteggiare il personaggio dello scienziato pazzo guerrafondaio interpretato da Peter Sellers c’era senza dubbio Teller; e proprio al titolo del film fa riferimento il voluminoso libro di Peter Goodchild Il vero dottor Stranamore (Raffaello Cortina, 2009) che ricostruisce, in modo fin troppo particolareggiato, la vita e l’attività del fisico ungherese trapiantato negli Usa.

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La sorpresa del libro è quella di restituirci un’immagine non completamente negativa del protagonista; anzi, è prevalente la fisionomia di uno scienziato entusiasta, di un uomo amante del suo lavoro, come ha dichiarato ai curatori dell’edizione italiana Giulio Giorello e Elio Sindoni: “Posso dirvi per esperienza personale che questa ricerca è di gran lunga la più piacevole di tutte le nostre attività. Di fatto, l’unica cosa piacevole dell’attività di uno scienziato è la scoperta dell’inatteso”. È interessante ripercorrere la sua storia scientifica, che lo vede appassionato studioso di matematico e poi brillante fisico, arrivato precocemente nel circuito internazionale dei big della fisica di metà Novecento.

 

Certo non gli ha giovato il carattere spigoloso e irruento; e certi episodi della sua vita lasciano piuttosto perplessi: come quando al processo contro Oppenheimer ha lanciato giudizi pesanti che sono suonati come accuse; delle quali peraltro si è subito inutilmente pentito.

 

Attraverso il libro di Goodchild è possibile ricostruire l’atmosfera che regnava a Los Alamos, dove Teller era andato convinto di sviluppare subito la bomba H e dove, fino al mattino del primo test il 16 luglio 1943, il clima era quello di un normale centro di ricerca (solo con una più elevata concentrazione di geni).

 

Quell’alba Teller la descriverà così: “La nube di condensazione prodotta dalla palla infuocata cambiava forma, mentre veniva soffiata dal vento in più direzioni diverse. Alla fine era diventato un punto interrogativo lungo miglia e miglia. Eravamo tornati alle basi senza quasi riuscire a proferir verbo. Sapevamo che la prossima esplosione nucleare non sarebbe stata un esperimento”.

 

Sono soltanto accennate le reazioni dei fisici dopo l’invio delle bombe sul Giappone. Ma sono emblematicamente sintetizzate dai commenti contrastanti di Oppenheimer, che dichiarava a un giornalista di essere “un po’ spaventato per ciò che ho fatto” e subito aggiungeva, quasi per auto convincersi, che “uno scienziato non può bloccare il progresso per paura di ciò che il mondo farà delle sue scoperte”.

 

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Certamente con meno dubbi Teller è rimasto più di ogni altro sulla scena scientifico-politica; molti lo ricorderanno negli anni ‘80 protagonista del programma reaganiano dello scudo spaziale, che prevedeva l’impiego di sofisticate tecnologie belliche in una mega azione difensiva e (forse) non più offensiva. Sempre deciso e determinato nei suoi obiettivi. Ma non ingenuo circa le conseguenze dell’impresa scientifica.

 

Come commentano ancora Giorello e Sindoni, Teller non ha mai nascosto che la paura delle applicazioni del sapere scientifico era tutt’altro che immotivata: “Il disagio generato dalla paura è reale; alcune motivazioni sono comprensibili; molte estrapolazioni sono prive di fondamento”. C’è quindi “un disperato bisogno di comprendere la scienza e di comprendere le applicazioni della scienza”.

 

Ma tale comprensione diffusa resta sempre un compito infinito perché “al di fuori delle nostre specializzazioni noi scienziati non siamo infallibili. Ciò fa sì che alle acquisizioni tecnico-scientifiche siano sempre associati dei pericoli”.