Complessità e semplicità sembrano a prima vista poli opposti eppure, come spesso accade all’approssimarsi di un nuovo paradigma, il primo sguardo potrebbe essere fallace. L’iniziale “semplicità” dei sistemi presi in considerazione dalla fisica è sfociata, dopo quattrocento anni, nell’insostenibile complicazione di teorie (si pensi alla teoria delle stringhe e al cosiddetto “universo elegante”) che hanno perso qualsiasi contatto con la realtà tanto da essere ormai al di fuori di qualsiasi prova sperimentale.



La necessità di rimettere in moto la capacità di apertura sul mondo della cultura scientifica,  ci ha costretto a prendere sul serio la realtà con la sua imprevedibilità e resistenza ad entrare docilmente nei nostri schemi preformati. Questo ci ha fatto scoprire una verità sconvolgente e consolante: lo studio dei sistemi complessi ci chiede uno sforzo di semplificazione e non di ulteriore complicazione dei nostri costrutti. Questo è il tema del bellissimo libro di Ignazio Licata Complessità. Un’introduzione semplice edito dalla duepunti di Palermo. Ma andiamo con ordine.



A scanso di equivoci l’autore ci ricorda che qualsiasi seria attività scientifica deve operare una programmatica ‘riduzione’ del reale, troncando sul nascere ambiguità del tipo di quelle presenti su molte terze pagine che confondono la realtà con la sua rappresentazione da parte della scienza, implicitamente sottintendendo che la ‘scienza ha già chiarito tutto’ e quindi condannando a morte quell’attività che invece vorrebbero farci credere di amare svisceratamente.

Ma se Ignazio, in quanto fisico, non può essere metodologicamente un anti-riduzionista, di certo lo è (sono parole sue) «nel senso del riduzionismo ideologico, la foglia di fico dietro cui prospera la tecnoburocrazia, il ‘nient’altro che’ e infine il fatale ‘le cose stanno così’. Reificare i processi in oggetti trasformando l’osservatore in un deus ex machina esterno al sistema ha avuto consguenze dannose sulle scienze della vita e soprattutto sul modo di concepire le discipline socio-economiche».



La fisica quantistica circa un secolo fa si è trovata di fronte ad un bivio drammatico: la non separabilità tra l’oggetto della sua indagine e la riflessione sugli strumenti di misura che questa indagine rendono possibile. Il carattere ‘classico’ degli strumenti di misura confliggeva inesorabilmente con il carattere ‘quantistico’ della realtà investigata. In altre parole il problema era che gli strumenti di indagine usati dai fisici, per le loro stesse dimensioni, obbedivano a delle regolarità della natura diverse da quelle a cui obbediva il mondo che i fisici erano interessati ad indagare.

Da questa discrasia nasceva il corto circuito tra osservazione del mondo e riflessione sull’attività di osservazione che abbiamo incontrato in innumerevoli articoli divulgativi indicato come ‘doppia soluzione’ o ‘collasso della funzione d’onda’. Lo stesso ente “diventava” onda o particella a seconda dell’arbitrio dello sperimentatore. Questo è il genere di argomenti usato per impressionare con iperboli del tipo ‘la natura non esiste’. In realtà «da una parte c’è chi ritiene che l’osservatore è cruciale nel ‘collasso della funzione d’onda’, dall’altra chi ritiene le misure quantistiche indipendenti dall’osservatore. Senza entrare troppo nel regno quantistico, possiamo dire che hanno ragione entrambi, o in modo equivalente che le due posizioni sono errate. I processi naturali non dipendono certo da noi, però ciò che osserviamo è sicuramente legato alle nostre scelte. In un processo quantistico possiamo concentrarci sul lato corpuscolare o su quello ondulatorio degli oggetti».

Hanno insomma torto sia i post-moderni radicali che ci assicurano che non esiste natura, non esiste una verità, che tutto non è ‘niente altro che..’ una nostra costruzione mentale e sociale, sia chi da scientista non ammette alcuna traccia di ‘soggettività’ nei risultati scientifici e pretende che il reale sia ‘niente altro che …’ ciò che ci dice la scienza.

Entrambe queste posizioni dimenticano il fatto che noi facciamo parte del quadro, il che fa sì che, come ci ammoniva Tommaso d’Aquino, il nostro conoscere è Adaequatio intellectus et rei, continuo aggiustamento. L’esistenza della verità (ma certo non il suo possesso) corrisponde alla tensione continua verso la maggiore conformità dei nostri modelli con il mondo lì fuori. Non il “controllo assoluto” e neanche la costruzione di “mondi razionali” che prescindono dal confronto umile con la realtà ma un amorevole seguire delle “storie conseguenti”. Adattarsi a ciò che la realtà ci propone ben sapendo che la sua irriducibile complessità ci porrà di fronte a dei cigni neri generati dalla sua parte oscura e incalcolabili dalle nostre (per definizione parziali) rappresentazioni .

Chiamiamo questa proprietà “apertura logica” un concetto figlio della dimostrata incompletezza di qualsiasi sistema formale (si pensi al lavoro di Godel in matematica) e alla base di alcuni clamorosi fallimenti della scienza del ventesimo secolo (cfr. la cosiddetta Intelligenza Artificiale forte per cui tutto il mentale poteva essere trasformato in algoritmo) e di molta ideologia pseudoscientifica del ventunesimo (cfr. neuroetica, genocentrismo ..).

Si tratta allora di cambiare registro: «Quello che esploreremo è un territorio in cui più che le cose in gioco, singolarmente prese, è interessante studiare i cambiamenti globali delle loro relazioni». Concentrarsi sulle relazioni consentirà di sviluppare una saggezza che «potrà essere applicata a un’azienda oppure a una proteina in virtù di ciò che le accomuna, che non è certo una questione di componenti o di struttura, ma di logica evolutiva. Naturalmente non ci aspettiamo che una teoria di questo genere possa renderci in grado di calcolare ciò che per sua natura è incalcolabile, ma descriverà comportamenti globali e ci suggerirà storie possibili sulle quali intervenire».

Occorre re-inserire lo scienziato all’interno del mondo togliendolo da una freddissima posizione di osservatore esterno ed impassibile indice di profonda estraneità verso la natura a cui appartiene. «Prendere una posizione critica nei confronti della scienza riduzionista, e dunque unica perché ideologica, non è soltanto un esercizio di onestà intellettuale che riguarda i filtri cognitivi e la conoscenza scientifica, ma è un’indispensabile premessa di libertà individuale e sociale».

Questo diventa di drammatica evidenza quando si passa a considerare le grossolane semplificazioni ancora in auge nella scienza economica, dove un modello di homo oeconomicus maniacalmente rivolto alla massimizzazione del profitto come unico obiettivo perseguito ha portato al disastro epocale di questi ultimi anni. Se consideriamo le imprese per quello che realmente sono in termini di reti di relazione tra soggetti, scambio e creazione di informazione, ci accorgiamo che la massimizzazione del profitto è solo una parte del gioco. «Per impresa non possiamo limitarci ad una definizione basata su produzione e consumo.

 

Dobbiamo pensare a quelle iniziative e gruppi (a volte informali, eppure capaci di esibire un’identità relazionale) che hanno creato cultura e valori: la Sony, con il suo motto “make.believe”, nata nel 1946..con idee produttive un po’ vaghe ma con la ferma intenzione di ridare al Giappone la sua dignità…. Impresa è termine che deve essere liberato dall’associazione riduzionistica con un “prodotto”, e riconnesso alla funzione sociale, al ruolo, allo stile, alla produzione di cultura… E infine, anche il concetto di “strategia” deve ritornare alla sua dimensione cognitiva e differenziarsi rispetto a quello di marketing».

Accettare consapevolmente questa ‘apertura logica’ dell’impresa ci costringe a demistificare parole ritenute sacre come ‘innovazione’ che in ultima analisi si risolve nel “miglioramento ipertrofico dell’esistente”. Citando il libro «il problema non consiste nell’essere il migliore giocatore ma nell’ideare nuovi giochi».

Derivare questa lezione dalla nuova scienza della natura ci fa sperare in una ragione piena e non nella sua meschina caricatura “puramente calcolante” vincolata da binari rigidi ed astratti, la via di una nuova alleanza fra uomo e natura, fra saperi diversi e interagenti è lì che ci aspetta.