Tutti cercando il van, tutti gli dànno
colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d’altro l’accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.
È l’ insuperabile grazia della poesia di Ludovico Ariosto che, nel canto dodicesimo dell’Orlando Furioso, ci introduce al labirinto del mago Atlante, infernale illusione dove l’incantatore cerca di rinchiudere i paladini di Francia arrivando anche a pensare a svaghi e comodità:
E mentre fa lor far quivi dimora,
perché di cibo non patischin brama,
sì ben fornito avea tutto il palagio,
che donne e cavallier vi stanno ad agio.
Il motivo per cui è così difficile sfuggire dal palazzo incantato di Atlante è un abile sistema di pareti riflettenti (o meglio questa è la mia interpretazione prosaica e un po’ meschina, Ariosto rimane sul vago) in cui il malcapitato perde completamente l’orientamento vedendo ripetuta mille e mille volte la sua immagine che si confonde con quella degli altri prigionieri. Insomma l’inganno è tutto nell’auto-referenzialità: senza un punto di riferimento esterno, una causa formale, uno scopo, una teleologia (vedremo poi come questi concetti siano intimamente legati) possiamo anche ingannare il tempo e ‘stare ad agio’ ma essenzialmente ‘cerchiamo il van’ , siamo ‘in affanno’, e soprattutto perdiamo la nostra libertà.. se il mondo contemporaneo, la cosiddetta società liquida, inizia a sembrarvi il ‘palagio di Atlante’, avete ragione, ma pazientate ancora un po’.
Il fatto che i prigionieri di Atlante ‘non si san partir di quella gabbia’ l’ho provato in maniera sperimentale all’ ex Luna Park dell’Eur dove ogni romano di più di venti anni di età (il parco è sventuratamente chiuso da tempo) si ricorda con nostalgia di una efficientissima versione moderna del palazzo di Atlante appena a destra dopo l’entrata principale, sotto la grande ruota. Si trattava di una casetta con tutte le pareti di vetro, 50 metri quadri, non di più , in cui chi vi si avventurava poteva girare per delle mezz’ore, arrabbiandosi, inveendo, sbattendo sulle pareti senza però riuscire a trovare l’uscita.
Lo spasso per noi ragazzini delle medie che andavamo in bicicletta da San Giovanni all’Eur nelle antiche domeniche di austerità; spasso completamente gratuito per giunta, era di canzonare i malcapitati che vi si avventuravano (se si trattava di ragazze ‘in tiro’ o di arroganti giovanotti lo spasso era triplicato) che mano a mano perdevano la loro sicurezza e spesso si trovavano a dover implorare gli addetti del Luna Park di farli uscire. Il bello era che per noi che stavamo fuori dal labirinto la posizione dell’uscita era ovvia, mentre chi stava dentro, ingannato dagli specchi, non riusciva a liberarsi.
Luca Grion viene dal Friuli, è perciò (peggio per lui) dotato di un tasso di cinismo incomparabilmente minore di noi romani e quindi nel suo Persi nel labirinto – Etica e antropologia alla prova del naturalismo (edizioni Mimesis), cerca di fornire agli sventurati che si aggirano per le pareti riflettenti del nostro mondo post-moderno qualche utile indicazione per uscire dal labirinto.
Luca, che unisce alla lucida competenza filosofica un bell’intuito nel comprendere le proposizioni scientifiche, tant’è che io lo vedrei molto bene come statistico, ci dimostra che, alla base delle ‘grandi spiegazioni’ che informano (io direi avvelenano) il nostro comune sentire, i nostri giudizi morali, il nostro discernimento di ciò che è bene e ciò che è male ci sono proprio delle barriere riflettenti.
Egli fa l’esempio di quelle discussioni a cui abbiamo avuto tutti la sventura di prender parte in cui qualcuno con spirito di tolleranza chiude il discorso dicendo ‘Questa è la tua verità e io la rispetto, ma io continuo a essere persuaso della mia verità’. È l’emotivismo, entrambi i contendenti sentono che si sta parlando di qualcosa che ha un valore generale ma non riescono a uscire dalla barriera riflettente per cui l’unico fondamento accettato dalla contemporaneità per i giudizi morali è ‘ciò che uno sente’, la sua emozione. È una barriera riflettente perniciosa su cui sbattiamo facendoci molto male, è il corto circuito di sentire che si sta trattando di una ‘verità generale’, di qualcosa che dovrebbe andar bene per tutti in quanto esseri umani, il Bene insomma, e insieme paradossalmente non essere in grado di individuare nessun riferimento valido per tutti e così rifugiarsi nell’inspiegabile e afasica emozione.
Grion riesce però a dimostrare (è qui che ci fa intravedere la via di uscita dal labirinto) che l’emotivismo ha un padre che pochi di noi si sarebbero aspettati: lo scientismo e che i due lavorano insieme per la nostra infelicità. L’evoluzionismo (non la teoria scientifica dell’evoluzione che è cosa rispettabilissima, ma la sua caricatura filosofica), certi deliri delle neuroscienze e quella fantascienza inopinatamente scappata dalla collezione Urania (rispettabilissima anche lei e da me molto amata collana) per finire nelle pagine di paludate riviste di scienza e di filosofia, a cui diamo il nome di trans-umanismo, hanno costruito un muro di apparentemente salde ‘verità scientifiche’ che di fatto impediscono ogni ragionevole discorso sul mondo.
Insomma il mago Atlante scientismo ha costruito un palazzo in cui dovunque ci giriamo non troviamo altro che la scritta ‘pensa a te, godi senza pensare ad altro’ che ci rovina ogni reale felicità ed ogni gioia (tra cui la rispettabilissima, anche lei, gioia carnale che, privata della relazione con lo spirito, diventa molto ma molto meno soddisfacente).
Grion smonta pezzo a pezzo il palazzo del mago usando con competenza le armi della filosofia e della scienza (quella vera, non la caricatura magica) e poi ricostruisce con un po’ di Aristotele e molto Tommaso una bella mappa per muoversi con agilità nel labirinto e salvarne i malcapitati prigionieri. Un risultato eccezionale, se si pensa che è stato raggiunto in 209 pagine; siamo obbligati, nonostante tutto il possibile cinismo, a pensare a un lavoro veramente molto ma molto ispirato, qualcosa che, se generalizzato (a me piacerebbe tantissimo vederlo diffuso nelle scuole) potrebbe solidificare tutte le società liquide con cui venga messo in contatto.