Se fossimo infinitamente piccoli potremmo vedere la corsa delle cellule durante la formazione di un embrione, avessimo un tempo sterminato vedremmo tutte le fasi dello scivolamento dei continenti, la danza delle galassie, le invisibili forze che agiscono costantemente. La scienza, però, impone un metodo di conoscenza e indagine che, non sempre, permette di assistere ai suoi mutamenti in modo diretto, ma ad alcuni è data la possibilità di immergersi nell’oscuro mare dell’ignoto e di riemergere per poterlo raccontare. Uno dei punti più oscuri è rappresentato dal cervello, definito nella sua forma e dimensione, eppure coinvolto in una serie innumerevole di azioni, atti della coscienza e apprendimento non ancora pienamente compresi. Jill Bolte Taylor è una neuroanatomista americana specializzata nell’analisi post mortem del cervello umano. Ha iniziato ad interessarsi di neurologia molto presto: voleva capire cosa ci fosse di diverso, da un punto di vista biologico, tra il suo cervello e quello di suo fratello, affetto da schizofrenia. Dopo gli studi a Boston è diventata una ricercatrice e ha continuato a lavorare sui processi cerebrali, provando a divincolarsi nell’intricata ragnatela che governa la maggior parte delle attività della vita.

Lei ha avuto la rara possibilità di studiare la principale tra le patologie cerebrovascolari, l’ictus, da una prospettiva insolita: quella del paziente. La mattina del 10 dicembre del 1996, la Taylor si è svegliata con un dolore acuto dietro l’orecchio sinistro. Lei lo descrive come la sensazione che si prova mordendo un gelato. Il dolore era martellante e andava e veniva; i suoi movimenti risultavano come legati e non aveva la percezione di dove finisse il suo corpo e iniziassero gli oggetti che la circondavano, era come se fossero un tutt’uno. Guardando il cervello, sono facilmente distinguibili i due emisferi cerebrali, nettamente separati l’uno dall’altro, uniti unicamente dal corpo calloso. Se dovessimo paragonarli ad un computer l’emisfero destro sarebbe un processore parallelo, mentre quello sinistro uno seriale.

Il nostro emisfero destro è concentrato sul presente, “qui ed ora”, pensa in immagini e impara cinesteticamente, attraverso i movimenti del corpo. L’emisfero sinistro è lineare e metodico, gestisce il passato e il futuro: prende l’enorme collage del presente e raccoglie, quindi cataloga ogni dettaglio e organizza tutti questi dati, li associa alle nostre conoscenze e proietta nel futuro tutte le nostre possibilità. È quel costante “chiacchiericcio” che collega ciò che è fuori da noi con la nostra capacità di scegliere e decidere. Come si può vivere senza?

È questo che la Taylor ha descritto nel suo libro La scoperta del giardino della mente. Cosa ho imparato dal mio ictus. Quando racconta del momento in cui, sola in casa, si è resa conto di avere un ictus nella porzione sinistra del cervello, oltre ad un brivido di panico non riesce a nascondere lo stato di eccitazione che l’ha colta quando ha capito di essere la testimone diretta di uno di quei fenomeni che si possono studiare solo in modo diretto. Non ha dimenticato nulla, gli eventi della mattina del 10 dicembre sono impressi nella sua mente in modo indelebile: la perdita della coscienza di sé l’ha fatta sentire come espansa, parte della realtà che la circondava senza una precisa identità.

 

Percepiva solo un enorme flusso di energia che avvolgeva tutto e lei si sentiva annegare, annullata. Lo descrive come se le fossero stati tolti tutti gli anni di emotività e preoccupazioni, una neonata in un corpo di donna. Le ondate di incoscienza andavano e venivano, concedendole alcuni momenti di offuscata lucidità che le hanno permesso di capire che doveva cercare aiuto, ma telefonare non si è rivelato semplice come previsto: non riusciva a ricordare nessun numero a memoria e i biglietti da visita non erano altro che pixel uno vicino all’altro. Dopo 45 minuti di tentativi fallimentari dovuti ad amnesie che non le permettevano di ricordare se avesse già digitato il numero di un suo collega, finalmente una risposta dall’altro capo della cornetta, ma più che umana sembrava il verso di un cane, allora anche la Taylor ha parlato, ha chiesto aiuto, ma nemmeno lei riusciva ad articolare qualche suono che fosse umano.

 

L’ictus aveva compromesso anche la sua capacità di comprendere il linguaggio. Al suo risveglio si è ritrovata in ospedale, tutte le stimolazioni la facevano sentire bruciare, la luce, i rumori erano amplificati all’ennesima potenza. Nell’arco di qualche giorno le è stato rimosso un coagulo, grosso come una pallina da golf, che premeva sui centri deputati al linguaggio. Le ci sono voluti otto anni per guarire ma quelli, a detta sua, sono stati gli anni più entusiasmanti per la ricerca di tutta la sua carriera.