È trascorso un anno dalla data del primo lockdown, momento di drammatica presa di coscienza che la pandemia da Covid-19 riguardava pesantemente anche il nostro paese e che non sarebbe stato un problema di poco conto del quale ci saremmo rapidamente dimenticati. Tutti ricordiamo il discorso dell’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte quando, nel comunicarci le necessarie misure di contenimento, ci consolò assicurandoci che “Torneremo ad abbracciarci”. E ci ricordiamo anche come Carlo Verdelli nel suo editoriale di Repubblica di qualche giorno dopo diede voce agli angoscianti interrogativi che tutti ci ponevamo “Sì. Ma fra quanto? E in quanti di meno?”.
Oggi l’Istat ci fornisce una risposta, purtroppo parziale, alla seconda domanda, mentre per la prima dobbiamo ancora attendere.
Dai dati recentemente divulgati dall’Istat, infatti, emerge che nel corso del 2020 si sono registrati 99.296 morti in più della media degli anni 2015-2019. Di questi morti in eccesso l’11% è concentrato nella sola Ats della città metropolitana di Milano e ben il 37% nella Lombardia. Le punte massime si registrano nella Ats di Bergamo (con una crescita dei decessi del 60,5% rispetto alla media degli ultimi 5 anni), in quella di Brescia (+41,4%), in quella della Val Padana (Mantova e Cremona +37,8%) e in quella di Piacenza (+37,2%), mentre le punte di minimo sono osservate nella Asl di Salerno (+1%), nella Asp di Catanzaro (+0,3%) con un calo della mortalità nella sola Asl di Roma 4 (-0.3%). Mentre non tutte queste morti possono essere direttamente collegate alla pandemia di Covid-19, la spiegazione di questo eccesso di mortalità è certamente ad essa legata indirettamente, trattandosi per lo più di morti per altre patologie alle quali è mancata l’assistenza necessaria data la congestione degli ospedali causata dall’emergenza.
È un bilancio desolante, da bollettino di guerra!
Se questo è il bilancio dell’anno passato, purtroppo l’attuale situazione non può ancora indurci all’ottimismo.
Già nel nostro intervento del 22 gennaio avevamo messo in evidenza i primi segnali di una terza ondata la quale appare oggi, ahimè, conclamata.
Infatti, dopo aver raggiunto il secondo picco di massimo verso la fine di novembre, la curva epidemica si era avviata a una discesa, la quale però si è arrestata a fine anno su valori ancora molto elevati (circa 2.500 ricoverati in terapia intensiva e 440 decessi). Da quel momento in poi è proseguita tra varie oscillazioni una discesa estremamente lenta, tanto che 2 mesi dopo (a fine febbraio) i posti letto occupati in terapia intensiva erano ancora oltre i 2.000 ed i morti giornalieri 277. Tali numeri non erano comunque tollerabili a lungo anche se fossero rimasti stabili. Tuttavia, nell’ultima settimana, tutti i parametri hanno cominciato decisamente a crescere, portando nei pochi giorni di marzo fino ad oggi i posti in terapia intensiva a passare da 2.100 a 2.600 ed i decessi giornalieri da 270 a 310.
Questa terza ondata presenta una importante differenza rispetto le prime due.
Infatti, a inizio pandemia, il 24 febbraio 2020, il sistema sanitario partiva da una situazione assolutamente sotto controllo, nella quale il tasso di positività era del 2,16%, i ricoverati con sintomi erano solo 101, in terapia intensiva avevamo 26 pazienti ed i decessi giornalieri erano 7. Allo stesso modo quando è iniziata la risalita che ha portato alla seconda ondata a metà agosto, il tasso di positività era ancora molto basso (0,6%), i ricoverati con sintomi erano 744, le terapie intensive ospitavano 41 pazienti ed i decessi giornalieri erano 8.
Che situazione abbiamo invece oggi nell’affrontare la terza ondata?
Il tasso di positività, il primo dei parametri a segnalare i cambi di tendenza, cresce ormai da 20 giorni quando era peraltro già al 4,5%. In quel momento i ricoverati con sintomi erano circa 18.000, quelli in terapia intensiva più di 2.000 ed il numero di decessi circa 300.
Dato il più elevato punto di partenza, se la terza ondata avesse lo stesso andamento delle prime due il sistema sanitario rischierebbe il collasso e il prezzo da pagare in termini di vite umane sarebbe altissimo. È un rischio che non possiamo correre!
Occorre dunque la massima attenzione e ben vengano, dunque, le restrizioni che l’Istituto superiore di sanità ha richiesto di adottare al Governo in questi giorni con l’istituzione di una zona rossa nazionale nel periodo pasquale e il passaggio immediato di colore nelle regioni maggiormente colpite.
È naturale che per molti italiani tali misure siano viste come disastrose dal punto di vista economico, ma va tenuto sempre ben presente che anche da questo punto di vista, l’errore più grave sarebbe quello di trascinare a lungo la situazione attuale. Un sacrificio oggi può, invece, portarci più rapidamente fuori dall’epidemia e darci dunque la spinta per ripartire una volta lasciata alle spalle questa lunga emergenza.
Tra tutte queste cattive notizie ce ne sono probabilmente due che possono indurre un certo cauto ottimismo, sempre a patto di attenersi scrupolosamente alle misure restrittive che ci sono richieste.
La prima notizia positiva ci deriva dalla nostra storia passata.
Nel corso del secolo scorso, infatti, si riscontra un’importante analogia tra la situazione attuale e la famosa Spagnola, un’influenza a carattere pandemico caratterizzata da un’elevata mortalità. La Spagnola arrivò a infettare circa 500 milioni di persone in tutte le aree del mondo provocando la morte di circa 50 milioni di essi (ad oggi il Covid-19 si calcola abbia infettato 119 milioni di individui ed abbia fatto 2,6 milioni di vittime).
Il corso della pandemia Spagnola del 900, pur con grandi differenze nelle diverse aree del globo, si è sviluppato in molte nazioni (tra le quali l’Italia), in tre ondate distinte: la prima nella primavera del 1918, la seconda nell’autunno del 1918 e la terza nell’inverno del 1918-19 (vedi la Figura 1 relativa alle mortalità per influenza e polmonite nelle tre ondate pandemiche da Spagnola nel Regno Unito, 1918-19). Dopo la terza ondata dell’inverno del 1919, il numero di nuovi casi diminuì bruscamente e l’infezione rapidamente scomparve del tutto.
La coincidenza con gli andamenti storici che abbiamo osservato fin qui per l’attuale epidemia da Sars-CoV-2 è impressionante! Dunque, se la storia si dovesse ripetere, la terza ondata potrebbe essere l’ultima da affrontare.
Il secondo elemento di ottimismo risiede nello sviluppo del piano vaccinale. La precedente influenza Spagnola, infatti, scomparve senza averne trovato alcuna cura né terapia di prevenzione e ciò rappresenta un’importante differenza rispetto all’attuale emergenza. Ad oggi sappiamo che in Italia sono stati vaccinati con entrambe le dosi 1.861.852 individui (3,12%), ma 4.357.997 sono stati già sottoposti ad almeno una dose (7,31%) con una media giornaliera intorno alle 200.000 dosi somministrate. Tali valori sono ancora molto bassi e lontanissimi dall’immunità di gregge alla quale tendiamo e che raggiungeremo solo quando verrà raggiunta una percentuale tra il 70 e l’80%. Tuttavia, va tenuto presente che una quota elevata della popolazione è già immune essendo entrata in contatto col virus. Infatti, se il numero ufficiale del totale degli infetti è ad oggi in Italia 3,15 milioni, alcune stime parlano di valori molto più elevati, intorno ai 10 milioni.
Con questi dati e gli attuali ritmi, l’immunità di gregge non arriverà prima di agosto, ma possiamo avere fiducia in un’accelerazione significativa la quale ci porti in sicurezza già da prima.
In un caso e nell’altro possiamo cominciare a sperare che questa terza ondata che stiamo affrontando, e con la quale bisognerà combattere per tutta la prossima primavera, possa davvero essere l’ultima.
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