Nutrirsi delle immagini del passato e capire come queste possano influenzare la creazione di immagini nel presente. È un procedimento teorico che però le avanguardie hanno contribuito a rendere pratico: Pietro Marcello è il regista contemporaneo che meglio ha saputo gestire questo procedimento, prendendo le immagini di repertorio e rendendole il tessuto connettivo dei suoi film.
La sua nuova opera, L’envol, è il film di apertura della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes ’22, e continua il lavoro sul romanzesco cominciato col precedente Martin Eden: qui la base di partenza è il romanzo di Aleksandr Grin, Vele scarlatte, usato per raccontare la storia di Juliette (Juliette Jouan), ragazza appassionata di canto che vive col padre veterano di guerra, tra il primo e il secondo conflitto mondiale, in attesa che si compia la predizione di una chiromante, l’arrivo di vele rosse che la porteranno via dalla sua condizione. Marcello adatta il romanzo assieme a Maurizio Braucci, Maude Amélin e Geneviève Brisac e ne trae un racconto di formazione femminile e (più o meno) femminista che racconta la condizione di una donna che tenta di emanciparsi dal mondo che la circonda e che pare opprimerla.
Dopo aver sondato le pieghe del cinema del reale, del documentario più creativo e averle aperte al loro rapporto con la Storia e il passato, Marcello è andato ancora più a fondo nella sua ricerca, arrivando davvero a guardare il passato attraverso il filtro dei racconti d’epoca (Martin Eden è un romanzo del 1908, Vele scarlatte è stato pubblicato nel 1923). Il filtro diventa così inteso anche in senso visivo ed estetico, il lavoro sulla pellicola e sulla qualità avventurosa e dell’immagine si condensa nel 35mm caldo di Marco Graziaplena, in grado di catturare la magia che Juliette attende e tradurla in grana dell’immagine, in luoghi e inquadrature che sanno cogliere la potenza di una vita in trasformazione.
Non di meno, L’envol pare il più debole dei film di Marcello, che dopo il successo internazionale del precedente è alla prima produzione fuori dall’Italia, in senso linguistico ed economico: il racconto, la matrice letteraria e la struttura stessa del racconto ingabbiano lo sguardo del film, i meccanismi produttivi sembrano limitare le possibilità del lavoro sugli attori (Louis Garrel pesce fuor d’acqua, ma anche il resto del cast non vibra di quella spontanea verità richiesta dallo stile del regista) e le difficoltà di adattamento di rado diventano possibilità stilistiche, finendo per bloccare il cuore del film, la passione di chi lo fa.
Il finale lo risolleva, certamente e sul grande schermo il talento di Marcello si fa sentire, ma stavolta quel lavoro sul tempo che passa, nelle immagini e con le immagini, che ha reso unico lo sguardo del regista, appare un po’ stantio, quasi dovuto.
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