Dal 1952, acquistata dal Comune di Milano, nel Castello Sforzesco del capoluogo lombardo, si trova una delle più inquietanti e affascinanti opere d’arte al mondo. E’ la cosiddetta Pietà Rondanini, dal nome della famiglia che l’acquistò nel 1744. Per oltre un secolo la scultura si trovava, dimenticata, in una bottega romana. A questa Pietà l’autore Michelangelo Buonarotti lavorò fino a pochi giorni prima di morire. L’opera venne infatti rinvenuta nello studio di Michelangelo dopo la sua morte e inventariata così: “Statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”.
Michelangelo era ottantenne, quando vi mise mano: “Nel gruppo si alternano parti condotte a termine, riferibili alla prima stesura, e parti non finite, legate ai ripensamenti della seconda versione mai compiuta. Le parti condotte a termine sono un braccio destro di Cristo, staccato dal resto del corpo e rotto a un’altezza poco sopra il gomito, le gambe del Redentore e tracce di un diverso orientamento del volto della Vergine”. Visto che Michelangelo aveva, come tutti gli artisti dell’epoca, sempre lavorato con squadre di aiutanti (non avrebbe mai potuto terminare la Cappella Sistina da solo, ad esempio), la domanda che ci si pone davanti a quest’opera è: come mai nessuno vi mise mai mano per completarla? Così come è, la Pietà Rondanini è la testimonianza di un uomo che sta lottando contro la morte, ma alla fine la morte lo ha sorpreso. Niente di più sublime e ultraterreno. E’ come se Michelangelo avesse scolpito quella lotta suprema.
Ottantenne anche lui e gravemente malato, Leonard Cohen registrò nelle sue ultime settimane di vita diverso materiale. Secondo la cronaca, cosa che nessuno può appurare se non attraverso le parole del figlio Adam, chiese a lui di completare quel materiale e farne un disco. E’ davvero così? O l’anziano Cohen registrava come momenti di consolazione davanti alla malattia che lo divorava? Lo faceva come ha sempre fatto, assoggettato a quel dovere supremo che l’arte gli aveva imposto? Nessuno lo sa. “E’ sempre stato così per me e mi dispiace non essere stato un padre migliore, ma il mio mandato creativo è stato un dovere che non potevo ignorare, il più forte richiamo di ogni dovere della vita”. Per vivere, Leonard Cohen doveva comunicare, assoggettarsi a quell’ordine supremo che la vita gli aveva dato in consegna.
Il disco postumo uscito in questi giorni, Thanks for the Dance, è qualcosa di una potenza straordinaria. E’ quanto di più personale Cohen abbia mai inciso, se You Want it Darker non lo era già abbastanza. E’ un uomo in attesa della morte: “Non posso uscire di casa O rispondere al telefono Scendo di nuovo Ma non sono solo Decantando finalmente Conti dell’anima Questo per la spazzatura Quello pagato per intero Per quanto riguarda l’autunno È iniziato molto tempo fa Non riesco a fermare la pioggia Non riesco a fermare la neve Mi siedo sulla mia sedia Guardo la strada Il vicino ritorna Il mio sorriso di sconfitta Mi muovo con le foglie Brillo con il cromo Sono quasi vivo Sono quasi a casa Nessuno da seguire E niente da insegnare Tranne che l’obiettivo Non è all’altezza della portata”. Nessuno ha mai descritto così l’attesa della morte imminente, il guardare da dietro a una finestra la vita che continua, ormai senza di lui. Vecchio, malato, incapace di muoversi e respirare, ha paura, una paura terribile di quanto gli sta per accadere. In un altro brano, ringrazia sommessamente per i pochi sprazzi di vita che la medicina gli concede: “Vivo di pillole per le quali ringrazio Dio”.
A questi versi, il figlio Adam Cohen ha tentato di aggiungere una colonna sonora che funziona a malapena, ma poco importa. Mettere ad esempio una chitarra flamenco a un brano che si intitola The Night of Santiago, solo perché viene citata una città spagnola, è operazione banalmente sciocca, anche perché la melodia intonata da Cohen è piuttosto country. Quella chitarra, sulla voce che proviene ormai da un altro mondo di un uomo che fissa la morte, è come un pugno nello stomaco. Altrove, l’uso smodato di grandi nomi, da Daniel Lanois a Damien Rice, da Beck a Jennifer Warnes, è un tentativo di celebrazione.
Il cd si chiude addirittura con un frammento di poesia che Cohen, in uno stato di trance e trascendenza, recitò a un giornalista durante la sua ultima intervista, un mese prima della morte, Hummingbird. E’ un frammento soltanto: “Listen to the mind of God/ Which doesn’t need to be/ Listen to the mind of God/ Don’t listen to me.” E’ lo stesso grido disperato di Henrik Ibsen nella sua opera Brand, dove il pastore che intitola il dramma alza la voce: “Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte mi inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?”.
Quasi tutti i pezzi compresi nel disco sono poesie recitate, con l’inconfondibile timbro di uno che “è nato con il dono di una voce dorata”, come disse lui stesso una volta. Come d’altro canto ha sempre fatto, lui nato poeta, imprestato alla musica. Il suo recitare è ricchissimo di musica, come è sempre stato per quest’uomo. C’è un groove impareggiabile nella sua voce. Non ha paragoni. Queste registrazioni andavano ascoltate nella purezza e nella meraviglia del silenzio assoluto attorno a quella voce profetica e musicale, non c’era bisogno di alcun vacuo abbellimento. Il silenzio non è mancanza di suoni, il silenzio è il tutto che avvolge l’essere umano. E parla. Comunica la voce di Dio.
Viene ancora in mente la Pietà Rondanini, lasciata così come l’ultimo colpo di martello dell’autore l’ha lasciata per l’eternità. Registrate su disco, se proprio lo si voleva, bastava un lieve accompagnamento di pianoforte, tasti lievemente sfiorati, per dare al disco la magnificenza che si merita. “Less is more“.
La voce. E’ la voce dell’uomo che porta a galla l’immensità sconfortata e orante dell’uomo che sta morendo. Sarebbe stato il rispetto e l’affetto più grande verso Leonard Cohen.
Rimane che sia straordinario che un uomo che soffriva di cancro, aveva fratture da compressione spinale e che riusciva a malapena a muoversi, abbia potuto fare delle registrazioni con una voce così forte e incrollabile. C’è un verso della Torah, Deuteronomio 30:19, che dice “Scegli la vita”. Questo comandamento è così centrale nell’ebraismo che è inscritto sotto la fiamma eterna nella Sala della Memoria dell’Olocausto dil Washington D.C. Scegliere la vita è il tema centrale di questa raccolta, parteciparne a tutti gli aspetti, compresa la preparazione per la propria morte. Il suo ultimo regalo per noi.