Per conoscere e inoltrarsi in Leonardo, ci si deve liberare dall’aura e dal mito. A me è capitato da studente, in Università Cattolica, frequentando in modo un po’ clandestino uno dei maggiori leonardisti di sempre, il professore Augusto Marinoni da Legnano. Aveva un suo ufficetto, naturalmente ricolmo di carte, che gli era stato giustamente lasciato anche dopo che era andato in pensione. Nel 1968 fu nominato nella commissione che doveva studiare e soprattutto trascrivere i codici di Leonardo. Iniziò dai tre conservati in Italia (il Trivulziano al Castello Sforzesco, l’Atlantico all’Ambrosiana e quello del Volo degli Uccelli alla Biblioteca Reale di Torino: è bene stare informati sul nostro patrimonio…).



Poi passò ai due codici di Madrid, che erano stati ritrovati fortunosamente nel 1967, e via via a tutti gli altri. Si può dire che per lui Leonardo non avesse più segreti: leggeva agevolmente la sua scrittura sinistrorsa, sapeva dare un perché a quasi tutti gli appunti o gli schizzi di cui i Codici sono pieni (compresi certi dettagli segreti, che Marinoni mostrava di soppiatto perché palesemente pornografici). Aveva decifrato i rebus con cui Leonardo teneva allenata la sua mente, o le favole inventate da lui, perché a Leonardo nulla era estraneo.



Fu un approccio molto formativo, corroborato poi dalla lettura dei mille articoli pubblicati su riviste che il professore mi elargiva generosamente ad ogni incontro. Non erano mai saggi sui massimi sistemi, ma semmai sui minimi dettagli, scritti in modo asciutto, senza nessuna concessione alla retorica del genio: ciascuno dedicato ad un frammento di quell’immenso puzzle di cui era fatta la mente sconfinata di Leonardo.

Molti anni dopo mi è capitato di rivivere le sensazioni di quell’esperienza giovanile, davanti ai quattro giganteschi volumi con cui uno dei più importanti storici dell’arte rinascimentale, Alessandro Ballarin, aveva radunato anni di studi e di appunti sulla stagione forse più importante di Leonardo, quella milanese.



Erano quattro volumi, per complessive 2900 pagine, con 2700 illustrazioni. In tutto 22 chili di libri. Ballarin alle qualità di conoscitore aveva aggiunto quelle da detective, dimostrandosi capace di scavare dentro quegli anni decisivi della vita di Leonardo e di costruire sequenze del tutto verosimili. Sono libri in cui poco alla volta, facendo magari giri larghissimi per rimettersi dentro il contesto, tanti tasselli vengono messi al loro posto, trovando una logica in tante situazioni della vita di Leonardo che non sembrano avere logica: le pagine dedicate al caso della doppia versione della Vergine delle Rocce (perché due? e perché quelle differenze lievi ma decisive?) sembrano gli atti di una lunghissima inchiesta in cui nessun indizio è tralasciato, ma conclusa con la soluzione del caso. E con la conseguente, indicibile soddisfazione per chi si era imbarcato in quella lettura quantitativamente impervia…

Alla lettura del libro di Ballarin devo anche la scoperta del Leonardo urbanista. Infatti lui sorprende spesso, non solo per i capolavori, ma per le annotazioni a margine. Come ad esempio quel suggerimento che aveva dato a Ludovico il Moro, il signore alle cui dipendenze era restato per 17 anni tra 1482 e 1499, circa uno sviluppo diverso per il futuro di Milano (una città che gli era certamente congeniale per la naturale disposizione ad innovare). Nel 1493 aveva presentato un piano di ammodernamento della città: un’espansione per decongestionare la città medievale, dove gli uomini “l’uno addosso all’altro stanno a similitudine di capre”. Cinquemila case da costruire, per un totale di 30mila abitazioni, divise in dieci quartieri, serviti dalla rete dei Navigli.

Per la prima volta la città non viene concepita come struttura monumentale statica, ma come organismo dinamico, con un’analogia con il corpo umano e il suo apparato circolatorio. La sua città futura è una città a più livelli. Quello superiore per pedoni, mentre per il traffico pesante prevede piani di scorrimento sotto gli edifici, con facilità di scarico delle merci al livello meno uno delle case. Non era fantascienza, era immaginazione scattata da un’attenta osservazione della realtà. Quanto deve la Milano di oggi a quell’immaginazione?