Ancora risuona il grido sincero di Giacomo Leopardi e del suo “pastore errante”. Grida alla luna fin dal 1830: “E io che sono?”. In che cosa consiste l’io? Quella paroletta da cui dipende – anche verbalmente – tutto il mio rapporto con il mondo. In un’epoca che si ingolfa e si bea della parola Natura, la riflessione sulla natura umana diventa ancor più necessaria, pena una ridda quasi ridicola di fraintendimenti.



La domanda di Leopardi attraversa tutta la modernità e la contemporaneità, ed è alla radice di molte questioni che oggi agitano il dibattito, le coscienze, e hanno effetti a vario livello. La crisi che Leopardi mette in scena è quella dell’identità. In cosa si identifica più profondamente il mio io? In niente? In una successione di “cose” possibili e intercambiabili? In una azione? In un colore della pelle? In una nazionalità? In una tendenza sessuale? In una volontà? In una fluidità del mio percepito di me stesso?



La questione è gigantesca e infatti ha affascinato e attratto le grandi intelligenze e i tentativi più attrezzati del pensiero occidentale. I poeti migliori vi sono affondati dentro. Non c’è qui lo spazio per passare in rassegna i tentativi di risposta che hanno animato i nostri secoli più recenti, dalla psicanalisi ai vari tentativi di risposta di “identificazione” in ideologie, sovranismi, tendenze sessuali, tendenze politiche, fino all’indiscutibile “percepito”. In questi tentativi, ognuno coglie una dose di verità che però rischia di divenire velenosa menzogna quando si costituisce in ideologia e si presenta nelle sue forme tendenzialmente totalitarie, spesso conculcate da un potere meno visibile, ma non per questo meno operante e soffocante, ad esempio attraverso regolamenti burocratici o la società dello spettacolo.



Al tentativo di “definire” in qualche modo l’identità di un essere umano si oppone il grido di un altro poeta: Pier Paolo Pasolini alla richiesta di dare una definizione di sé in una intervista risponde: “ è come domandare una definizione dell’infinito”. Qui credo stia il punto: nella drammatica e vivificante relazione tra io e infinito.

Non a caso essa fu a tema della poesia e del pensiero dello stesso Leopardi per tutta la sua esistenza, come ho mostrato nel libro dedicato al tema. Ma la mentalità attuale, coltivata da quello che Pasolini chiamava un nuovo fascismo, un Potere senza volto ma persino più pervasivo ed efficace del fascismo storico, ha dei problemi con l’infinito. Senza categoria e senza esperienza dell’infinito, ogni valore, compreso quello della persona, diviene inevitabilmente definibile, e dunque oggettivabile come valore misurabile in uno scambio. In una visione del tutto economica della vita.

L’attuale ansia di definire in mille modi, come appartenenti a una categoria, gli esseri umani nasce da tale difficoltà. Alla quale concorre in modo non secondario (e, a mio modo di vedere, colpevole) anche il ruolo di istituzioni religiose distratte rispetto a questo punto fondamentale, quando non addirittura istupidite nella difesa e nell’attacco di questa o quella “identità”.

Il proliferare di aggettivi – di origine nazionale, razziale, sessuale – che si vorrebbero come sostanze identitarie (e quindi da un lato portatori di diritti in sé, dall’altro definibili sulla base delle concessioni del potere, che siano concessioni all’identità politica, sovranismo, o al percepito personale, soggettivismo) mostra la tendenza di questo pensiero a risolvere il problema in termini quantitativi, invece che qualitativi, imitando già in questo una logica fondamentalmente economica secondo il nuovo modello “da noi trovi di tutto” . Poi come il negoziante o la catena di distribuzione decide quale merce esporre meglio o a cui dare più risalto, lo stesso tipo di potere decide quali identità promuovere e quali altre oscurare nel suo grande Bazar.

Lo “spostamento” di quanto è un aggettivo (italiano, bianco, nero, omo o eterosessuale o altro) a fattore essenzialmente identitario è da un lato causa di scontro sociale, e dall’altro, e soprattutto, di nuove ansie. Nessuna di queste “giacche” infatti può definire/contenere l’abissale natura umana e la sua essenza di rapporto con l’infinito. Ma la frenesia di rispondere senza considerare l’infinito a quel grido leopardiano, che non a caso è rivolto alla luna, non a una corte o a un parlamento, non si ferma. E ne viene, ad esempio, che non solo ogni aggettivo, ma ogni atto diviene tendenzialmente identitario. Ed è infatti oggi non solo difficile discutere di atti che ci paiono criticabili, ma è anche più difficile spiegare a qualcuno che se pur un certo tizio ha commesso un omicidio, non va giustiziato e via, perché quell’atto non lo identifica del tutto. In scala minore, ma ugualmente ansiogena, è oggi la tendenza a sentirsi giudicati in modo “definitorio”, identitario, per gli atti compiuti. L’errore, invece di essere un atto, diviene il contenuto della persona. Che se fa una cavolata è dunque quella cavolata. E così anche le qualità (estetiche, morali o altro) che ne incoronano la personalità.

Il paradosso inevitabile è che, pur dicendo di voler promuovere e includere le differenze di identità, si finisce per renderle tutte “apparentemente” equivalenti in una sorta di omologazione, gestita in realtà dal potere. Non a caso, sotto la facile retorica dei diritti e dell’inclusione, e la speculare altrettanto facile retorica di accusa a chi obietta di esser retrivo e violento, portate avanti da quelli che lo stesso Pasolini definiva “chierici di sinistra”, questo processo di omologazione e di gestione delle identità procede parimenti alla più grande opera di controllo capillare sulla vita delle persone e sulla più efficace penetrazione mercantile mai avute nella storia.

Alla libertà di “scegliersi un prodotto” si deve affiancare – perché il percorso di una riduzione della libertà a libertà di consumo sia totale – la persuasione della libertà di scegliersi una identità. Che come avviene nella gestione dei profili identitari dei social offre poi materiale economico e politico in forma di dati e di controllo. Prima sede di queste dinamiche è ovviamente il linguaggio. Così come primo proscenio è lo spettacolo.

Per “opporsi” a tale visione che basa l’identità sul “genere” (e quindi sulle sue messe in discussione come se questo fosse il reale campo della riflessione intorno alla natura umana) occorre innanzitutto capire che cosa è in gioco, e offrire una reale alternativa. Ovvero una vita e una cultura che, sfuggendo all’ansia delle identità e leggendo la natura dell’io a stretto contatto con l’infinito, tolga le ansie e gli scontri generati da tale visione, da tale risposta errata e soffocante al grido di Leopardi.

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