È la poesia più famosa di tutti tempi. La sua inconfondibile ambientazione, la sua peculiare scaturigine e la sua appassionata e vivificante tensione lirica l’hanno resa una vera e propria pietra miliare della cultura mondiale, un affascinante ed umanissimo specchio sui cui riflessi è possibile trovare la nostra immagine più intima. Per questo, a 200 anni dalla sua composizione, l’eco prodotta dai versi de L’infinito leopardiano non accenna a placare il suo veemente riverberarsi nei cuori e nelle menti dei suoi lettori.
Un’opera che aspiri alla vetta dell’immortalità, d’altronde, si distingue proprio dal possesso di tale requisito: un nucleo ermeneutico eternamente rinnovabile, capace di trasmettere ad ogni epoca che si avventuri nella sua definizione le parole di cui essa ha bisogno, di cambiare forma ma non consistenza, di presentarsi come una novità sempre uguale e fedele a sé stessa.
Parlare dei 15 endecasillabi nati all’ombra della desolante altura recanatese, perciò, non è mai banale, o superfluo: L’infinito, nella sua materialità scritturale e critica, come la meta spirituale a cui rimanda, non può essere perennemente inchiodato ad un’interpretazione univoca. Non è eterno ciò che si vanta della sua fissità, ma ciò che muta sopravvivendo, adattandosi a qualsivoglia condizione storico–ambientale.
È un appello – decisamente accorato – quello che travalica il tempo leopardiano per giungere, come un piacevole pungolo, fino a noi. Alla nostra età, urbana ed interconnessa, schizofrenica e condannata al contrappasso di non sapere guardare indietro. Un tempo in cui sembra preistorico anche solo immaginare il conte Giacomo assiso sullo squallore del Monte Tabor di inizio 800, pieno più di sterpaglie e siepi che di motivi più prettamente confacenti ad un’effusione lirica di quel calibro. Eppure, circondato da questa barriera paesaggistica e personale, non poteva esserci altro luogo in cui si potesse realizzare la possibilità di intuire un cenno dell’eterno, di sfiorare un lembo dell’infinità. Com’è possibile che l’ispirazione per eccellenza, l’illusione scenica che più si avvicina a sconfessare la realtà, sia nata da un luogo tanto prosaico nel senso più deteriore del termine? Quale filo rosso unisce tutti gli uomini sotto le insegne di questo soffuso grido leopardiano? Quello del desiderio.
“Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente […] al piacere, ossia alla felicità […]. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti […] né per 1. durata, 2. né per estensione”.
Così annotava Leopardi in un passo dello Zibaldone datato luglio 1820, in cui emergono mirabilmente delle chiavi di lettura preziose, e non sempre tenute debitamente in considerazione, per L’infinito. Innanzitutto, il poeta recanatese ci indica come assolutamente concreto lo stimolo necessario alla maturazione immaginifica del sentimento più vasto che esista: più la ristrettezza opprime e attanaglia l’animo umano, più questo assume la capacità di librarsi miracolosamente sul terreno della libertà. La percezione dell’infinito, in questo senso, non è una sparuta prova di astrattismo né una conquista del pensiero autoprodottasi con modalità innatiste. L’infinito, piuttosto, è figlio di una disperazione claustrofobica: è la scommessa del salto, la sfida del sopravanzamento, la concezione del limite non come confine ma come frontiera. Non si può conoscere la vertigine dell’altezza senza lo spavento dello sprofondo, senza avere in odio la bassezza di un mondo che dimentica la sua matrice.
In secondo luogo, il diario filosofico dello scrittore individua nella costituzione sentimentale umana un’insopprimibile inclinazione alla conquista della felicità: che non è, per Leopardi, uno dei piaceri, un tappabuchi esistenziale d’emergenza, ma il piacere per antonomasia, la meta da afferrare per sperimentare la completezza del proprio sé. Questa stessa meta, però, è pressoché inagguantabile in quanto non livellata rispetto alle effettive possibilità umane. L’uomo sogna l’infinito, e non può non sognarlo, perché, a priori, il suo stesso desiderio è infinito, insaziabile, non frantumabile. Lo dice la stessa parola, che seguì come un’ombra anche il Dante della Commedia: de+sidus, ovvero “dalle stelle”. Come può la felicità discendere sino ai nostri tormenti se la sua intrinseca ragion d’essere è così lontana dalla nostra portata?
Diviso tra l’infinitamente grande che appare sfuggente e l’infinità del nulla che incombe ad ogni piè sospinto: questo è il Leopardi del colle, il Leopardi di una vita passata a cercare di ottenere le ali invocate nell’ultima strofa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. È così che finisce il nostro viaggio tra le pieghe de L’infinito? Con una condanna inappellabile per l’uomo all’infelicità? Non proprio.
È il testo stesso che ci spinge a non rinunciare al tentativo di scostare un po’ più bruscamente la siepe delle nostre presunte certezze acquisite. La caccia alla felicità non è esclusivamente causa di afflizione: è presenza vivificante, motore immobile e semantico del nostro agire, fine ultimo e stella polare del nostro cammino. Trarremmo delle conclusioni troppo nette se ritenessimo l’uomo vittima del proprio desiderare: egli, al tempo stesso, ne gode, si crogiola in esso come rifugio dall’asfissia della morte.
Il suo sforzo non è mai vano: certo, l’infinito non è abbracciabile. Ma, come sperimenta Leopardi, possesso di attimi. La felicità non è una nube di fumo che si dilegua al nostro approssimarci, ma qualcosa che si è avuto tra le mani e si è perduto. Per tale ragione la conclusione linguistica della lirica è strutturata come sappiamo: Leopardi, infatti, afferma che il suo pensiero, nell’immensità della sua immaginazione, non annega, bensì “s’annega”, rimarcando il suo coinvolgimento e la sua ferma volontà.
Per questo il naufragare è dolce in questo genere di mare: perché nel turbine del suo desiderio l’uomo non viene schiacciato, annientato, non viene sommerso fino al punto di dover gettare la spugna. Non perde sé stesso, ma si acquista proprio in quanto uomo, che muore dal desiderio e per questo vive, perché inesausto nella ricerca. Nella ricerca di quegli attimi chiamati felicità.