“Parve agli dèi che la nostra sorte fosse per essere troppo più fiera e terribile, che alla divina pietà non si convenisse di consentire. Ma Giove seguitò dicendo: – Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore; il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità, quantunque potentissima e combattendolo di continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né di vincerlo se non di rado”. Omero? Virgilio? Un celebre cultore e traduttore della materia classica come Vincenzo Monti? Niente affatto. Appartiene a Giacomo Leopardi questo raffinato ed appassionato scorcio epico-mitologico tratto da Storia del genere umano, prologo poco noto delle Operette morali.



Forse perché ingiustamente oscurato da prove quali Dialogo della Natura e di un Islandese o Dialogo di Tristano e d’un amico, forse perché volutamente sottovalutato per via dei suoi contenuti anticonvenzionali rispetto alle incrollabili certezze che la critica ritiene di aver acquisito a proposito della poetica leopardiana, eppure testimonianza inestimabile della riflessione che l’autore compì sulla condizione umana in un momento cruciale della sua esistenza: il cosiddetto “silenzio poetico”, che lo accompagnò dal 1823 al 1828. Un silenzio che, tuttavia, fece affiorare nel suo animo le risposte disperatamente inseguite fin dalla giovinezza. Le quali, a distanza di due secoli, travolgono anche noi con immutata forza e sconvolgente semplicità.



È una sorta di nuova Genesi quella a cui Leopardi affida il suo anelito di purezza. In cui la patina favolistica e superficialmente paganeggiante del racconto (che vede alternarsi sul palcoscenico della narrazione divinità olimpiche e concetti filosofici morali come la Verità e la Sapienza) non riesce a celarne del tutto la profonda matrice cristiana. È soprattutto una storia tremendamente umana, dove desiderio e sconforto, meraviglia e disincanto reggono le sorti di una specie mai paga della propria unicità, e per questo condannata a sognare ogni volta qualcosa di più irraggiungibile. Insoddisfatta della bellezza del creato, futilmente e ostinatamente iniqua dinanzi all’accondiscendenza dei Numi nel donarle di volta in volta nuovi trastulli come le stelle o i sogni, incapace di imparare dai propri errori nonostante la compassione di Giove dopo il Diluvio Universale.



Solitudine e frustrazione sembrano dominare gli uomini dell’epopea leopardiana, almeno fino all’avvento di Amore, il solo in grado di distoglierli dai propri travagli e tramutare la rapace cupidigia originaria in nobile sentimento. Non è un caso che questo indulgente emissario divino sia chiamato, nel testo, con il termine “fantasma”, che ci riporta etimologicamente al suo antecedente greco con il significato di “apparizione”. Amore è l’epifania che perfeziona la civilizzazione; la ragione che permea l’agire di ogni essere e che mitiga l’amarezza “dei mille negozi e fatiche”, “dei morbi e di un infinito altro genere di sventure”; che addolcisce “le condizioni e le fortune della vita mortale”. Che dà forma e corrispondenza, insomma, ad un’insopprimibile necessità: il sentore di “un’incognita e vana felicità”.

Così Leopardi tratteggia il dono essenziale degli dèi: come pietà che discende e invade gli abissi di ogni cuore, come dolore che trascolora in pietà. Ma anche come flebile scia da afferrare, come miracolo di redenzione che ci riscatta dalle bassezze della nostra inadeguatezza.

Amore, dunque, è il legame tra Cielo e Terra e coincide con la suprema aspirazione leopardiana: il raggiungimento dell’Infinito. Entrambi canalizzano gli istinti umani verso altezze siderali non soltanto etiche ma persino spirituali. Per farlo, entrambi sono costretti a sporgersi pericolosamente sul baratro del nulla, e talvolta addirittura ad esplorarne confusamente il fondo. Non c’è alternativa a questa discesa negli Inferi dell’illusione: lo slancio della salvezza passa dalla minaccia della fine. Del resto, ciò che qualifica la sincerità del nostro amare non è l’intensità con cui ci volgiamo all’oggetto della nostra passione o la felice conclusione di un corteggiamento, ma la tenacia e la consapevolezza che ci permettono di convivere con le sue inevitabili ferite. Similmente, quando speriamo, il nostro appagamento deriva dalla resilienza con cui ci aggrappiamo al barlume più fioco, anche solo all’attesa interminabile di un unico, irripetibile attimo di stupore.

Non c’è dubbio che le Operette morali siano le prove letterarie più dissacranti che Leopardi abbia mai concepito. Ma è altrettanto vero che la loro presentazione è affidata sorprendentemente ad un excursus di stampo quasi evangelico (al netto dei tòpoi letterari di gusto classicheggiante cui aveva fatto ricorso anche Dante nell’esordio del Paradiso). Una luce radicalmente differente illumina, pertanto, l’intera opera, nonché l’intera produzione del poeta, che a quelle vertiginose e seducenti altitudini tornerà negli ultimi anni della sua vita con il trepidante volo dell’ultima strofa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e con l’inno estasiato alla perfezione del cosmo ne La ginestra. Che a quell’amore concesso da Giove tornerà, imperterrito, fino al suo ultimo, impercettibile respiro.