C’è una qualità nascosta dei suoni e delle parole che spesso solo il silenzio riesce a decodificare. Una strana corsa all’oro che comincia in maniera quasi dimessa, ritraendosi dalla frenesia quotidiana che un periodo come quello che stiamo vivendo suggerirebbe. Un fatto che non è scontato che anzi sfugge ai più, perché la rassicurazione maggiore – anche se temporanea – sembra data dal vivere il frastuono e le urla del mondo e dall’aggiungerci le proprie.
Il nuovo album di Lera Lynn “On my Own” rappresenta un contributo al riappropriarsi di realtà e di parole a partire da quel silenzio, dal sorprendersi ammutoliti e disorientati al dare ascolto e lettura a quello che il patrimonio del cuore fa lentamente ritornare in superficie.
In quest’opera insieme di ispirazione e di dissodamento, la fascinosa cantautrice texana lavora in proprio ma è come se al contempo portasse altri dentro di sé. Proprio lei che per anni è stata alla ricerca, spesso quasi disperata, di una visione persuasiva del proprio definire musica e immagini. Un paio di canzoni quasi memorabili (una è quella della serie “True Detective” che l’ha rivelata al pubblico), un discreto album come Resistor, un penultimo album di duetti targato 2018 “Plays Well with Others” che a parte un paio di buoni episodi (tra i quali quello con la straordinaria Nicole Atkins, grande amica della Lynn) stenta a decollare imbrigliato in cliché di genere poco incisivi.
Infine la scoperta nella propria esistenza di quella nuova qualità del silenzio di cui si è detto.
Paradossalmente “On my Own” che fa da contraltare programmatico al lavoro precedente, finisce per realizzare in maniera compiuta il desiderio di suonare e condividere la musica in una perfetta simbiosi di corpo e spirito . E la Lynn va a coprire questa distanza in maniera equilibrata, facendo uso al meglio dei ferri del mestiere per cominciare a guardare sé e gli altri con uno sguardo e sotto una luce nuova. Un singolo pubblicato oltre un anno fa di grande efficacia, Dark Horse, aveva lasciato sperare in una finalmente raggiunta coesione di scrittura. Quell’indizio oggi si traduce nel mantenimento di una promessa.
C’è così una prima parte di sostanziale ricerca che – aperta dalla mossa, non trascendentale ma esortativa quanto basta Are You Listening – introduce a un lento percorso nel quale l’avvenente cantautrice si pone domande, spera e dispera, osserva fino ad arrivare a cogliere qualcosa di inedito.
La presa istantanea della bellissima melodia di What I’m Looking For fa da segno distintivo di questa fase, che si chiude con il citato penetrante mid tempo rock di Dark Horse transitando dalla sommessa So Far e dalla sconsolata esternazione bluesy di It Doesn’t Matter.
Tra docili chitarre acustiche, elettriche lambite e a in rari momenti graffiate, programming e appena due ospitate al basso in altrettanti brani, c’è tutta la sua natura musicale, americana integrata da spizzate slowcore e oscura eleganza d’autore, il tutto rivisto al rialzo. Un mix di silenzio e ascolto che sembrano avere letteralmente consegnato alla protagonista l’ingrediente esclusivo per l’allestimento di canzoni e melodie di rilievo.
La seconda parte – che mette in campo la decifrazione di un essenziale – ne conta almeno due. A Light Comes Through con un’incantevole alternanza voce piena/modulata e una pagina di raffinata, sottile eterogeneità come Make You Ok. Ne risultano valorizzati due momenti dignitosi come Let Me Tell You Something e Isolation, mentre da par suo la bella Things Change dota il disco di un sigillo all’insegna di un avvolgente etno-rock che sottoscrive con lo sguardo leale della sua fresca maternità, l’inesorabilità di un cambiamento della mente e del cuore contro ogni ruolo e condizione precostituiti. Come un sussulto di luce che finisce per passare sempre attraverso le cose …