Basterebbe il prologo. Sembra una frase fatta, ma per porre L’esorcista tra i pilastri della storia del cinema horror, basterebbe l’inizio, praticamente muto, tra gli scavi di Hatra, in Iraq del Nord: un uomo, che poi scopriremo essere padre Merrin, vaga tra i resti di una civiltà antica, mentre sotto sole, polvere e sudore, lentamente, senza musiche o effetti, emerge un’atmosfera maligna e sinistra che culmina col confronto tra l’uomo e la statua di Pazuzu, il demone che l’uomo sembra cercare da tempo. Solo forza delle immagini, cura del montaggio, precisione del suono. Nient’altro se non la forza pura del cinema.
William Friedkin, regista di questo film che torna al cinema per i suoi 50 anni e per il secolo di Warner Bros (che produce e distribuisce), è scomparso di recente e questa riedizione è anche un modo per omaggiare uno dei registi più importanti e influenti del secondo dopoguerra, colui che negli anni ’70, in pieno fervore New Hollywood, reinventò le linee guide dei generi e le portò a livelli di potenza artistica e culturale ancora oggi presi a modello: il poliziesco e l’action movie de Il braccio violento della legge, l’avventura de Il salario della paura, ma soprattutto l’orrore de L’esorcista che nel 1973 sconvolse il pubblico e cambiò le regole estetiche e produttive del filone.
Tratto dal romanzo omonimo di William Peter Blatty, anche sceneggiatore premiato con l’Oscar e produttore, il film racconta la possessione della piccola Regan da parte di Pazuzu, il demone che “risorge” nel prologo; ad affrontarla, padre Karras, prete tormentato che vede vacillare la sua fede, e padre Merrin, decano degli esorcisti che in Pazuzu vede il suo nemico atavico. La grandezza dello script e l’originalità dell’approccio registico stanno nel fare in modo che lato orrifico emerga poco a poco, come fosse un elemento isolato nell’architettura generale, come una folata di vento che si placa presto, ma lascia spazio a un malessere generale, proprio come le immagini subliminali del volto del demone sulle pareti della casa.
Molto più e prima di essere un film sul diavolo, L’esorcista è un dramma familiare opprimente, un film di madri e figli, di famiglie sfasciate, di abbandoni e rimpianti, di rimorsi e crepe emotive; è in quelle crepe che si annida la paura, di quelle crepe si nutre il diavolo la cui furia esplode prepotente solo nel finale, lasciando prima che sia la tragedia intima dei personaggi a costruire l’ansia e l’angoscia, perché tutti hanno un grumo di dolore nella propria vita familiare, e saggiamente, è quello il tasto che regista e sceneggiatore suonano meglio per coinvolgere chi guarda.
Ovviamente, è il modo in cui è costruito e realizzato il gran finale a essere entrato nella memoria collettiva, l’uso degli incredibili effetti speciali di Marcel Vercoutere, Dick Smith e Rick Baker, il montaggio trascinante di Norman Gay ed Evan A. Lottman, la fotografia inventiva di Owen Roizman, il sonoro (anch’esso premiato con l’Oscar) di Robert Knudson e Christopher Newman; però, a distanza di cinque decenni, ciò che segna ancora oggi la visione è la costruzione lenta e implacabile dell’atmosfera, come fosse un tempo sospeso nel male, nella tensione inesausta, nel male che prima di mostrarsi sembra penetrare le pareti degli interni in cui il film è girato.
E così, più delle superbe scene horror entrate nel mito, sono i momenti di dolore personale a rendere L’esorcista un film ancora oggi toccante, pauroso, è quell’atmosfera di sordo malessere che pervade le immagini, come quando qualcuno che amiamo sta per morire accanto a noi. Non è il diavolo a spaventare, ma l’impotenza di fronte alla morte: averlo colto rende il film una pietra miliare.
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