Enrico Letta non è l’uomo nuovo del Partito democratico. Nonostante la giovane età rimane uno dei personaggi che hanno caratterizzato la storia del centrosinistra nella fase della cosiddetta Seconda Repubblica, e della convergenza dell’area degli ex popolari cattolici verso gli eredi del Partito comunista italiano per l’obiettivo di consolidare la prospettiva di un’evoluzione bipolare del sistema politico italiano. Uno dei protagonisti assoluti, nella veste di ministro, sottosegretario alla Presidenza del consiglio nel secondo governo Prodi e di presidente del Consiglio di un governo inedito sostenuto da una frangia del centrodestra. Senza trascurare la candidatura nelle primarie vinte da Veltroni, per la carica di Segretario del partito.
Una carica che si ritrova a esercitare nella fase odierna, con una chiamata di popolo, per risollevare un partito logorato dall’esaurimento dell’esperienza del Conte bis, caratterizzata dal disperato tentativo di costruire un’alleanza strategica con i sopravvissuti del principale partito populista uscito vincitore nelle ultime elezioni del Parlamento.
Enrico Letta viene considerato come un leader politico post-ideologico, parte della generazione dei liberal dotati di capacità di analisi dei fenomeni economici e sociali, propensi a costruire soluzioni innovative, per conciliare le dinamiche delle innovazioni tecnologiche e dei mercati con i fabbisogni di inclusione dei ceti popolari, e per rigenerare l’impianto delle economie sociali di mercato che rappresentano la matrice storica dell’evoluzione delle istituzioni europee.
Non è lecito dubitare della coerenza del personaggio, peraltro riscontrata nei propositi rivolti ai membri dell’assemblea del partito che lo hanno eletto Segretario. I dubbi sono motivati dalla concreta possibilità che questi propositi, del tutto comuni a quelli portati avanti da Veltroni nella fase nascente del Pd e da Renzi con la prospettiva di un rilancio, possano trovare un terreno fertile in un partito indisponibile a praticarli.
Vale la pena ricordare che la convergenza tra le principali formazioni eredi della tradizione comunista e democristiana che hanno dato origine al Partito democratico era scaturita dall’obiettivo dei fondatori del Pd di concorrere alla prospettiva di un riassetto delle istituzioni, fondata sulla riaggregazione bipolare delle forze politiche, e di un’ambizione riformatrice delle politiche economiche e sociali. Questa seconda, finalizzata a riallineare le strategie del centrosinistra italiano con le riforme messe in atto dai laburisti di Tony Blair e dalle sinistre socialdemocratiche del centro-nord Europa.
La prospettiva di un’evoluzione bipolarista delle istituzioni è stata pregiudicata dalla deriva giustizialista del partito, volta a delegittimare gli avversari politici. Quella di riformare le politiche del lavoro e del welfare impedita dai pregiudizi ideologici e dalle controriforme messe in campo volte a riportare le lancette della storia sulla salvaguardia dei cimeli del diritto del lavoro, e delle politiche del welfare di stampo corporativo, che ci hanno ulteriormente allontanato dalle dinamiche più virtuose degli altri Paesi europei.
Delle originali ambizioni riformatrici del Pd è rimasto ben poco. Sull’ennesima delegittimazione democratica degli avversari politici è stata improvvisata l’inedita esperienza del Governo giallo-rosso. Gli effetti economici della pandemia sanitaria, presi a pretesto per dimostrare i presunti fallimenti del mercato e per per ridare fiato alle pretese dello Stato gestore e assistenzialista.
A distanza di 13 anni dalla costituzione, sono in molti a chiedersi se la fusione a freddo tra le due culture politiche operata per dare vita al nuovo partito abbia ancora un senso. In effetti, buona parte delle correnti del partito, confidando sui retaggi anti-renziani del nuovo Segretario, vuole affidargli il compito di portare a regime l’alleanza organica con il residuo rimasto dell’ex partito populista. All’opposto, quelle della minoranza confidano che il solido ancoraggio europeista di Enrico Letta possa consentire di riportare il Pd allo spirito delle origini, utilizzando al meglio l’esperienza temporale del Governo Draghi.
Resta il fatto che qualsiasi ipotesi strategica presuppone una corretta analisi delle criticità, se non proprio dei fallimenti, per rimettere il partito in sintonia con le ambizioni di una forza politica che vuole rimanere centrale nelle istituzioni, senza rendite di posizione. Tema che non può aggirato evocando l’orizzonte di una generica evoluzione dell’economia in senso ambientalista, e socialmente inclusiva, in grado di per sé di consolidare un’alleanza strategica. L’emergenza nazionale per eccellenza è quella di mobilitare una massa critica di energie finanziarie, imprenditoriali e sociali su obiettivi di medio lungo periodo, nell’unico Paese sviluppato dove le persone a carico, anche escludendo i minori, sono di gran lunga superiori a quelle che lavorano.
Il problema non è quello di dire “qualcosa di sinistra”, e di assecondare la pancia del proprio elettorato, ma di sintonizzarsi con il popolo che tira la carretta.