Caro direttore,
dalla lettura di due articoli apparsi la scorsa settimana su queste pagine (quello di Angelo Colombini e quello di Luca Pirola), emergono a mio parere elementi comuni che mi sembrano utili per una riflessione, oltre l’aspetto strettamente contingente delle circostanze rappresentate. Parto però da un fatto personale che mi ha molto impressionato.
Nella mia azienda, avendo avuto la possibilità di sottoporsi alla vaccinazione Covid, sette dipendenti su dieci hanno rifiutato; e questo a dispetto della mia aspettativa circa questa possibilità che credevo potesse essere accolta con soddisfazione da tutti. Ma il mio socio, che per la natura operativa del suo ruolo ha più strettamente contatto quotidiano con il personale, da subito, prima ancora del riscontro negativo, mi aveva fatto presente di non farmi illusioni in merito alla più che probabile mancata adesione. Abbastanza inutile, peraltro, cogliere, come ho tentato successivamente, ragioni razionali o anche solo ideologiche di tale rifiuto, motivato più da noncuranza e superficialità che da una per quanto discutibile posizione riflettuta.
Nell’articolo di Colombini, di fronte al problema degli infortuni sul lavoro, si evidenzia il passaggio, emblematico a mio parere, sulla mancata istituzione del Comitato aziendale per la gestione delle procedure anti-Covid evidenziando la malcelata soddisfazione da parte dell’autore per i conseguenti procedimenti giudiziari a carico dei datori di lavoro. Sono rimasto attonito su questa argomentazione; non solo perché di figure e funzioni sulla sicurezza siamo già invasi (RSPP, RLS, Preposti, Covid-manager…) con tutti i relativi adempimenti e sarebbe meglio far funzionare quello che c’è piuttosto che inventarsi ulteriori sovrastrutture. Ma soprattutto perché basta una normale frequentazione in cantiere edile (il settore che meglio conosco, ma non credo che sia differente dalla più parte delle fabbriche) per constatare che già il solo uso della mascherina e del distanziamento sarebbe una conquista incredibile, e normalmente si spende il tempo a continui quanto per lo più inutili richiami sul tema; è evidente che non sono organismi o procedure, di cui siamo letteralmente sommersi, che stanno affrontando il problema, anzi lo rendono forse solo più complesso da gestire.
Mi aggancio qui al tema proposto da Pirola circa la mancanza di rappresentatività reale del sindacato, che condivido totalmente, perché pensare di potere affrontare il tema del rischio Covid solo nei termini procedurali o peggio sanzionatori non ne è che la conferma. Peraltro Pirola pone anche in evidenza come di fatto si stia instaurando un rapporto sempre più diretto tra lavoratore e vertici aziendali; aggiungo io, non potrebbe essere diversamente quando il sindacato è spesso distante dalla realtà quotidiana dei lavoratori ed è più visto come un’appendice di uno dei tanti uffici in cui svolgere pratiche burocratiche. Solo per esemplificare, dal sindacato si deve “passare” di fatto per autorizzare la cassa integrazione piuttosto che per accordi di secondo livello o per le transazioni bonarie con i lavoratori; tutti questi, almeno nel caso di piccole aziende, sono atti assolutamente formali senza alcun sviluppo di argomenti di merito o coinvolgimento, in cui il sindacato partecipa con la mera sottoscrizione di documenti, azione in molti casi anche onerosa per l’azienda.
A me sembra dunque, riprendendo anche quanto a me successo, che si possano trarre due passaggi, che dalle pagine del suo giornale spesso sono richiamati.
1) Senza una reale educazione delle persone, quindi dei lavoratori e dei datori di lavoro (che sono più incoscienti che inadempienti) non si può pensare di affrontare un evento nuovo come il Covid, che peraltro non ha fatto altro che evidenziare un insieme di problematiche già sottese. E infatti la mancanza di ragioni o coscienza di un minimo di bene comune, cui stupefatto ho assistito, non è certo riducibile a un problema di regole o sanzioni (pur necessarie talvolta), ma è anche e soprattutto relativo alla concezione e alla modalità di affrontare il lavoro, più in termini rivendicativi di presunti o veri diritti che non legato alla costruzione di una realtà positiva per tutti.
2) Non è solo il rapporto “one to one” tra lavoratore e datori di lavoro auspicabile ma direi nemmeno utile, tant’è vero che io, che non ho un rapporto sistematico e quotidiano con i miei dipendenti, ho ipotizzato la conoscenza di un bisogno (salute e sicurezza rispetto al Covid) che da subito chi conosceva la situazione mi ha detto essere solo illusoria, almeno nei termini da me immaginati. Quindi, il tema dei corpi intermedi in cui riproporre l’ambito educativo nel senso più ampio e nobile del termine e come luoghi in cui convogliare e rappresentare le esigenze reali dei singoli, mi sembra cruciale perché non si immaginino soluzioni ideologiche a problemi reali del lavoro e non solo.
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