Si parla di eccessi di budget e di tagli alla sanità, di sanità pubblica e di sanità a multipilastri. Si parla di migrazione e di cosa fare, di razzismo e di integrazione. Ma queste sono realtà che talvolta restano distanti fino al giorno in cui uno si trova a doverle vivere tutte di persona, durante un fine settimana d’agosto in un pronto soccorso milanese. Si può obbiettare che le esperienze personali, spesso basate su una sola osservazione, non siano rappresentative e che per valutare sia necessario un più ampio campionamento. Tuttavia, se quello che viviamo in prima persona non è rappresentativo, che cosa lo è? Se come nel film di Kurosawa, Rashomon, ogni personaggio racconta lo stesso avvenimento in maniera diversa e addirittura diametralmente opposta agli altri, l’implicita domanda che ci resta è: qual è la verità? E se non sappiamo accordarci, qual è la base morale che sottostà al nostro agire? Si opera secondo quanto detta colui che urla di più?



Mi sono ritrovata in pronto soccorso prima, e in sala osservazione poi, per accompagnare mia madre malata di Alzheimer Parkinson. Non urinava da oltre trenta ore, seppure a fronte di un litro di liquidi che assume al giorno, non camminava più e, quando seduta, era tutta piegata da una parte. Quando mi sono presentata all’accettazione del pronto soccorso, la prima volta non era chiaro come accedere ai servizi dati i suoi impedimenti fisici e il grande afflusso di malati. Da una parte non era possibile assicurarle una barella e dall’altra, tenerla in sala attesa per delle ore prima di essere chiamata, era ugualmente improponibile. Ma la seconda volta che mi sono presentata, l’infermiera di turno all’accettazione ha trovato la soluzione al mio problema, suggerendomi di farla venire con l’autoambulanza sebbene noi abitiamo di fronte al pronto soccorso. Ogni sistema, per funzionare, necessita di procedure, ma è l’intelligenza degli operatori a saperle adattare per far fronte all’idiosincrasia delle innumerevoli situazioni.



Una volta in accettazione, mia madre è stata sistemata con altri malati in barella, nell’area attigua generalmente lasciata libera, non però in questa circostanza dato il sovraffollamento. Da quel punto di osservazione, ho potuto constatare il continuo multitasking degli infermieri, il polso fermo nel valutare le situazioni più svariate a fronte spesso di richieste irragionevoli, il monitorare lo stato dei malati durante l’attesa verificando febbre e pressione.

Mi ha colpito la loro pazienza nel trovarsi di fronte a pazienti che urlano e, in un caso, anche il timore di venire accusati di servizio non prestato. Un paziente straniero urlava incessantemente all’infermiere di avere perso il turno poiché non era stato chiamato, mentre l’infermiere affermava che lo aveva chiamato quattro volte. A un certo punto questo caso aveva monopolizzato tutta l’attenzione a scapito di tutti noi che aspettavamo da tempo il nostro turno.



Ci sono volute diverse ore prima che mia madre venisse presa in esame dal medico, in quanto era stata ammessa con bollino verde e continuavano ad arrivare pazienti con la precedenza. Una volontaria che si trovava lì per ragioni personali mi aveva spiegato: “Sono lenti ma sono bravi. Forse fanno fare troppe analisi, ma in questo modo si assicurano di essere accurati. Rispetto ad anni fa, a furia di tagliare la sanità, di medici e di infermieri ce ne sono sempre meno a fronte di malati che aumentano. Non solo di italiani che invecchiano ma anche di stranieri che affluiscono nel paese”. 

Durante quei tre giorni in ospedale, ho potuto osservare la realtà dell’Italia che cambia. Quando a un giovane africano, anche lui in barella, ho detto che in corridoio poteva avere l’assistenza di un familiare o di un conoscente, mi ha risposto che non aveva nessuno, era solo. In sala d’attesa ho avuto modo di ascoltare la storia di un giovane milanese di origine sud-asiatica, nato proprio al Fatebenefratelli, che si ritrovava con sei punti in testa a causa di un atto di razzismo: una banda di ragazzi gli avevano buttato una bottiglia rotta in testa. Per telefono il giovane spiegava al padre che li avrebbe denunciati ai carabinieri poiché li conosceva. Si poteva intuire la ritrosia del padre verso potenziali ritorsioni in seguito. In sala osservazione, l’infermiera veniva oltraggiata dal figlio della madre mediorientale in attesa di essere operata. Il figlio non voleva intendere ragioni. Quando mi sono rivolta all’infermiera mi ha detto: “Io che non lo ero, sono diventata razzista. Più sono giovani e più sono intolleranti. Riceviamo una grande quantità di stranieri, diamo un servizio praticamente gratuito, ma poi ci insultano anche”. Peter, un senzatetto di un’età indeterminata, forse sul bordo della morte con lamentele a volte strazianti, veniva assistito attentamente. Un familiare italiano arrabbiato, d’un tratto, molto presto la mattina, ha cominciato a insultare a viva voce Salvini e le tasse che doveva pagare. La maggior parte dei pazienti in barella ancora dormiva, allora sono arrivate le guardie e dopo varie discussioni lo hanno accompagnato all’uscita.

In questa realtà sovraccarica di frizioni – spesso i malati e i loro cari si sentono al centro del mondo a causa della malattia – si svolgevano dinamicamente le operazioni dei medici e degli infermieri: esami, medicamenti, igiene, pasti. Erano costantemente in prima linea, non vi era il tempo per prendere il caffè o speculare, come avviene spesso nelle realtà di ufficio.

Mia madre è stata dimessa ed è notevolmente migliorata. Ci è voluto un po’ di pazienza ma era ovvio che il sistema era sotto stress. L’impressione che ho è quella di una sanità che nonostante la grande pressione, regge ancora – anche se non si sa per quanto – grazie allo sforzo individuale e concertato di medici e infermieri in prima fila. Loro si trovano a far fronte all’Italia che cambia, nonostante la presenza di politici spesso lontani dalle realtà immediate.