Caro direttore,
scrivo di getto in risposta all’articolo “LA FAMIGLIA AL TEMPO DEL COVID/ Vista dalle mamme: le domande su figli, casa e lavoro“, pubblicato lunedì 29 sul suo giornale. Innanzitutto, credo che l’articolo si sviluppi partendo da un grave equivoco: in un’ottica di avanzamento di carriera, infatti, diventare mamme non può che comportare un grave deficit.
Sarebbe da illuse credere che una sospensione di 5/7 mesi dell’attività lavorativa non abbia delle ricadute in un’ipotetica scalata professionale. Non parliamo, poi, dell’ipotesi in cui tale sospensione si verifichi più volte e, magari, addirittura nei primi 5/10 anni lavorativi. È ovvio che si perdono delle opportunità di crescita, di apprendimento, di gestione del lavoro che non possono essere imputate a nessuno, se non alla scelta di diventare mamme.
In quest’ottica tutte le proposte (almeno quelle pertinenti con la tematica in oggetto) riportate in fondo all’articolo assumono, in alternativa, o i toni di un sollecito a investire in “parcheggi per bambini” (riapertura scuole, attività sociali e aggregative), o risultano del tutto fuori da ogni logica.
Come puoi pretendere che un datore di lavoro – a priori – sia favorevole a dei “permessi parentali”, piuttosto che a un “lavoro flessibile per le donne”? È ovvio che sono situazioni che gli forniscono meno affidabilità da parte del collaboratore. E se anche le si imponesse per legge, non si può pensare che la madre lavoratrice diverrebbe automaticamente parificata alla single “sempre disponibile”: il divario di garanzie e prestazioni, infatti, rimarrebbe.
Certo il divario potrebbe essere ridotto da altre skills della giovane madre (non riscontrabili nella single), ma la tara di fondo rimarrebbe immutata.
La vita è fatta di scelte. Non si scappa. Tra queste c’è anche quella di diventare madre a trent’anni o fare carriera da giovane. Non si vuole rinunciare a una delle due opzioni? Benissimo, si dovrà rinunciare alla possibilità di crescere i propri figli quando sono ancora bambini.
Questo punto deve essere chiaro. Solo alla luce di questo mi sta bene parlare di sussidi alle famiglie (sacrosanti, non fosse altro perché – con un po’ di egoismo e di cinismo – se non nascono più bambini, nessuno ci pagherà le pensioni). Ma, attenzione, i sussidi possono consentire alla giovane madre di procreare e fare carriera, ma non certo di stare con i figli.
Sgomberato il campo da equivoci e illusioni, resta da chiedersi se – invece di piegarsi alla nuova mentalità dominante secondo cui uomini e donne sono uguali, siamo donne valide solo se facciamo carriera, i figli sono la cosa più importante (però qualcuno me li deve curare) – non valga la pena stare con i propri figli e goderseli, rinviando ai 40 anni la scalata alle poltrone… oppure scalare in fretta le poltrone per poi affittare un utero a 45 anni.
(Violetta Romaspo)
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