Caro direttore,
ho appreso con gioia della nomina da parte del presidente Usa Donald Trump di Amy Coney Barrett come giudice della Corte suprema degli Stati Uniti. La Corte suprema ha negli Usa il doppio ruolo di giudice di legittimità (simile alla nostra Corte costituzionale) e di tribunale di ultima istanza (ruolo che in Italia appartiene corte di Cassazione). I giudici sono 9, sono nominati dal presidente, confermati dal senato e restano in carica a vita. Con questa nomina, se approvata dal senato, Trump può plasmare la Corte suprema per almeno i prossimi vent’anni, considerato che ha già nominato altri due giudici.
Amy Coney Barrett, 48 anni, ha un curriculum di primissimo livello: laurea in giurisprudenza all’Università Notre Dame (Indiana) summa cum laude, dove era executive editor della rivista giuridica universitaria; ha poi collaborato, durante il biennio 1998-1999, con il giudice della Corte suprema Antonin Scalia, universalmente riconosciuto come suo mentore. Durante questo periodo è stata definita da un collega, attualmente docente dell’Università di Harvard e non certo conservatore, come una giurista che emergeva per acume legale sugli altri colleghi, che spesso a lei si rivolgevano per ottenere supporto nei casi più difficili.
Docente ordinario nella Law School dell’Università di Notre Dame dal 2010 (ma già insegnava dal 2002), è stata nominata per ben tre volte “distinguished professor of the year” e non ha rinunciato del tutto all’insegnamento nemmeno quando è stata nominata dal presidente Trump giudice del settimo circuito delle corti federali (il livello appena sotto alla Corte suprema nella giustizia americana).
Personalmente ho avuto l’opportunità di conoscere la professoressa Barrett durante un periodo di studio all’Università Notre Dame, nella primavera del 2013, frequentando il suo corso di Modern Constitutional Theory. Oltre che le eccezionali doti accademiche ho potuto apprezzare l’estrema gentilezza e affabilità della professoressa, che si fermava dopo le lezioni a dare suggerimenti agli studenti stranieri che, come me, tentavano di affacciarsi al complesso mondo del diritto pubblico americano. Il suo corso era frequentatissimo da studenti con idee giuridiche, provenienze e background culturali molto diversi. Lei amava lasciar sviluppare il dialogo e il confronto, franco e serio, e desiderava conoscere come, nei diversi Stati esteri, la giurisprudenza e la dottrina avesse affrontato le tematiche che venivano analizzate nel corso. Ricordo poi lo stupore che emerse nell’aula quando raccontò di essere madre di 7 figli, di cui due adottati e uno con bisogni “speciali”, dimostrando così con l’esempio che essere madre non preclude una carriera brillante in campo giuridico.
Nel discorso di accettazione alla nomina alla Corte suprema, Amy Coney Barrett ha sottolineato che un giudice deve applicare la legge come è scritta. Un giudice non è un decisore politico. La sua posizione è nota come originalista: la Costituzione significa quel che ha significato per chi l’ha scritta e ratificata. Questa visione è evidentemente un forte freno a chi ha utilizzato in passato e sostiene tutt’ora interpretazioni estensive della Costituzione Usa per introdurre nell’ordinamento civile nuovi diritti.
Conoscendone il profilo professionale e umano non stupisce quindi che, come ha scritto su questo giornale Monica Mondo, la sua nomina venga criticata da gran parte del mondo liberal e democratico e da molti giornali, non nel merito, ma semplicemente sulla base della sua fede cattolica, come già fece la senatrice Feinstein indirizzandole l’iconica frase “the dogma lives loudly within you”. A questa accusa, che peraltro è di dubbia legittimità, visto che la fede personale non può essere oggetto di valutazione per una posizione pubblica, Barrett rispose che non è ammissibile che un giudice segua convinzioni personali su una decisione e non quanto richiesto dalla legge.
Attendiamo quindi le discussioni che si svilupperanno in senato nella fase di conferma della nomina presidenziale, che avverranno nei prossimi giorni e che il partito repubblicano, attualmente maggioranza, punta a concludere entro fine ottobre, sperando che si basino su un confronto, anche duro, di idee e di visioni giuridiche ma che non vadano ad attaccare la sfera personale, familiare e religiosa di una donna, madre e insegnante chiamata a ricoprire il più alto ruolo possibile per un giurista americano.
Luca Pirola